Le filiere del cibo sono spesso scenari di sfruttamento della terra, degli animali e dei lavoratori, dove il caporalato è un fenomeno molto diffuso (e in crescita, ne avevamo parlato qui). Si pensa spesso che le forme illegali di reclutamento e organizzazione della mano d’opera attraverso intermediari (caporali) che assumono operai giornalieri al di fuori dei normali canali di collocamento siano una realtà del Mezzogiorno, ma non è così: dei 405 distretti italiani in cui viene commesso il reato di sfruttamento in agricoltura, circa un terzo si trova nel Nord Italia. Nell’indagine intitolata Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia, l’associazione ambientalista Terra! prende in esame le filiere produttive del melone, delle insalate in busta e della carne focalizzandosi sulle provincie di Mantova, Brescia, Bergamo e Cremona.
Perché proprio la Lombardia?
La scelta di concentrarsi sulla Lombardia è dettata dal fatto che, con i suoi 14 miliardi di euro di valore della produzione agro-alimentare, rappresenta la prima regione del comparto e una delle regioni più colpite da procedimenti giudiziari riguardanti il caporalato. Altra piaga del settore agricolo italiano è quella del lavoro grigio che consiste nel segnalare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle lavorative. In tal modo la tassazione è applicata solo sulla quota dichiarata e ciò si traduce per l’impresa nella diminuzione dei contribuiti da versare, mentre per i lavoratori in una condizione di subalternità e in meno garanzie rispetto al salario e agli ammortizzatori sociali.
Caporalato legalizzato
Nella filiera del melone, il lavoro grigio è in forte espansione, esattamente come un altro fenomeno: le cosiddette cooperative senza terra. Queste società-contenitore, capeggiate per lo più da cittadini stranieri che intercettano o smistano i loro connazionali, mandano forza lavoro nelle aziende agricole durante i periodi più gravosi della stagione. Nel report di Terra! vengono definite un vero e proprio modello di caporalato legalizzato che perpetua una forma di sfruttamento basata sul sottosalariato. Molto spesso l’azienda agricola versa alla cooperativa il corrispettivo previsto dal contratto provinciale di categoria, ma la cooperativa elargisce ai lavoratori uno stipendio molto inferiore, oppure c’è una connivenza anche da parte dell’azienda che garantisce un salario minore rispetto a quello dovuto.
Il lato oscuro dell’industrializzazione
Il mondo dei prodotti ortofrutticoli confezionati è considerato la catena di montaggio dell’agroalimentare, poiché il comparto della IV gamma – cioè dei prodotti pronti al consumo – ha fatto dell’industrializzazione il suo punto di forza. Ciò significa ritmi di lavoro massacranti, esternalizzazione e giungla di contratti. Le tipologie contrattuali rilevate sono quella agricola, del commercio, per i dipendenti della piccola e media industria, dell’ortofrutta e dell’industria alimentare. Questa situazione intricata è resa possibile dal fatto che c’è una stretta relazione tra produzione agricola e trasformazione, dato che i capannoni di trasformazione sorgono accanto alle serre e la proprietà è della stessa persona. Negli impianti di trasformazione, l’impresa applica però un contratto diverso ai lavoratori alle dirette dipendenze sebbene il comparto produttivo sia lo stesso.
Il comparto della IV gamma
A fronte delle importanti criticità che presentano – eccesso di imballaggi in plastica e impermeabilizzazione del suolo causato dalle serre di coltivazione che nella sola Lombardia occupano oltre 2000 ettari di terreno agricolo – questi prodotti hanno conquistato una posizione importante nel panorama alimentare e il loro valore è determinato dalla velocità e comodità di consumo garantita a chi gli acquista. Tutto ciò ha però un prezzo: nel 2020 un chilogrammo di insalata pronta da mangiare valeva mediamente € 7,21, il 329% in più rispetto al costo dell’insalata sfusa in cespo che, a parità di peso, costava € 2,19. Se per i consumatori a essere interessato è il portafoglio, per gli operai sono le condizioni lavorative a essere insostenibili: il freddo è la costante dei capannoni industriali, poiché, a causa della deperibilità dei prodotti vegetali, la temperatura nelle celle di conservazione deve essere di 7°C, mentre negli ambienti lavorativi di 14°C.
Gli allevamenti intensivi
Oltre alla produzione di meloni, che vede la Lombardia al secondo posto dopo la Sicilia per volumi produttivi con la provincia di Mantova che ne coltiva circa 90 mila tonnellate, e a quella dei prodotti di IV gamma, la regione lombarda detiene un primato anche in fatto di carne, dato che ospita il 50% dei capi suini presenti in tutto il suolo nazionale. A differenza del resto d’Europa dove i suini pesano 100/110 kg, quelli allevati in Italia – quasi sempre industrialmente in allevamenti intensivi – pesano oltre 160 kg. Questa diversità è dettata dal fatto che è utilizzato il cosiddetto “suino pesante” per la produzione di prosciutti e salumi DOP e IGP, come il Prosciutto di Parma o il San Daniele.
A essere consistente non è solo il corpo degli animali, ma anche il fatturato dell’industria nazionale del suino che è di circa 8 miliardi di euro, distribuiti tra i vari settori. La filiera suinicola è infatti frammentata e raramente le varie fasi di lavorazione sono integrate in un’unica area: il macello acquista suini vivi dagli allevatori e rivende i tagli all’industria di trasformazione.
Il peso ambientale e umano
L’industria della carne presenta dei costi altissimi per gli animali – in Lombardia oltre 4 milioni di suini sono stipati in 6747 allevamenti –, per l’ambiente – gli allevamenti pesano per quasi il 17% nella formazione di Pm 2,5, una percentuale che in Lombardia arriva a toccare il 50% – e per i lavoratori, poiché anche in questo caso la manodopera è spesso esternalizzata favorendo il sottoinquadramento contrattuale degli operai. Come si è visto, l’elevato peso ambientale e umano sembra essere una costante dell’intero comparto agroalimentare, settore di grande importanza per l’economia del Paese. Evidenziando le criticità di tre filiere prese ad esempio, il rapporto di Terra! – basato sulle inchieste di Maurizio Franco e Filippo Poltronieri – vuole mettere in luce come in tutti i singoli distretti agroalimentari siano necessarie azioni multilivello che agiscano sui diversi ambiti tutelando le condizioni lavorative a 360°.
© Riproduzione riservata. Foto: Terra!, Depositphotos, AdobeStock
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Ma come funzionano i controlli? Sembra che queste cose le “sappiamo” tutti, tranne la Guardia di Finanza o i Carabinieri. Eppure questi lavoratori non sono chiusi negli scantinati a lavorare in silenzio, all’insaputa di tutti. O forse bisogna dare al titolare dell’impresa un preavviso di una settimana, in modo che nel giorno del controllo sia tutto regolare, con il lavoro svolto solo da poche persone in regola?
Interessante contributo, per la quantità di dati e di spunti di discussione che offre.
Mi permetto di essere schematico:
1) ” … dei 405 distretti italiani in cui viene commesso il reato di sfruttamento in agricoltura, circa un terzo si trova nel Nord Italia.”: per me è una notizia completamente nuova. L’assessorato regionale competente può promuovere un tavolo di confronto con le parti sociali e i sindacati …
2) ” … una delle regioni (Lombardia, n.d.A.) più colpite da procedimenti giudiziari riguardanti il caporalato”: per me una notizia completamente nuova, che non trova riscontro sui maggiori quotidiani nazionali.
3) “Altra piaga del settore agricolo italiano è quella del lavoro grigio che consiste nel segnalare un numero inferiore di giornate rispetto a quelle lavorative. In tal modo la tassazione è applicata solo sulla quota dichiarata e ciò si traduce per l’impresa nella diminuzione dei contribuiti da versare, mentre per i lavoratori in una condizione di subalternità e in meno garanzie rispetto al salario e agli ammortizzatori sociali.”: a questi svantaggi si aggiunge un problema previdenziale, che spingerà il lavoratore a proseguire fino a tarda età l’attività; e si consideri che in questo settore di lavoro usurante il rischio di infortuni dopo una certa età aumenta .
4) “L’industria della carne presenta dei costi altissimi per gli animali – in Lombardia oltre 4 milioni di suini sono stipati in 6747 allevamenti –, per l’ambiente – gli allevamenti pesano per quasi il 17% nella formazione di Pm 2,5, una percentuale che in Lombardia arriva a toccare il 50% – e per i lavoratori, poiché anche in questo caso la manodopera è spesso esternalizzata favorendo il sottoinquadramento contrattuale degli operai.”: se gli allevamenti lombardi producono il 50% del PM 2,5 come riusciremo a raggiungere i nuovi obiettivi europei per l’inquinamento atmosferico?
Situazione terribile da risolvere il prima possibile.
PER FORTUNA E’ STATO ISTITUITO QUESTO! per tutelare la qualità dei prodotti agricoli e la filiera agroalimentare Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste. che sicuramente collaborerà con i ministeri del lavoro, dell’ambiente e della transizione ecologica