Per tutta la seconda metà del secolo scorso la pesca è aumentata a livello tale da minacciare seriamente di estinzione decine di specie. È stato calcolato che, in quel periodo, circa la metà delle specie marine di interesse commerciale è andata incontro a overfishing, cioè a catture in quantità e ritmi superiori alle possibilità di rigenerazione. Oltre alle specie più richieste dal mercato come tonni e pesci spada, a fare le spese di quell’anarchia dissennata sono stati anche gli squali, in parte destinati ad alcuni mercati, come quelli orientali, ma in parte catturati per sbaglio, a causa di pratiche devastanti, prive di strumenti per diversificare e selezionare ciò che viene pescato. Questo ha avuto e ha ancora oggi ricadute molto pesanti sulla biodiversità dei mari ma, finora, non c’erano dati che aiutassero a comprendere meglio la situazione e le variazioni nel tempo.
Per sopperire a queste lacune, che pregiudicano qualunque programmazione, un gruppo di ricercatori baschi e canadesi ha messo a punto un metodo di monitoraggio continuo e l’ha applicato ai grandi pesci più rappresentativi – tonni, squali e pesci rostrati come marlin e pesci spada – per studiare l’andamento delle popolazioni negli ultimi settant’anni, secondo i dati disponibili. Come riferito su Science, i ricercatori sono partiti dalla Lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), l’elenco considerato più affidabile e aggiornato sul rischio di estinzione, e hanno elaborato il Red list index, con i dati relativi al cambiamento annuale del rischio di estinzione degli ultimi settanta anni (fino al 2020). Combinando questi dati con altri parametri quali la mortalità e gli effetti di alcune pratiche come la sospensione della pesca, hanno ottenuto su 18 specie, un risultato che potrebbe costituire un punto di partenza per iniziare a progettare un futuro diverso.
I tonni e i pesci rostrati, soggetti in numerose zone del mondo a leggi che ne regolamentano la pesca, anche a livello internazionale, a limiti e a sospensioni in vaste zone, negli anni Duemila hanno iniziato un lento recupero, diventato più evidente negli ultimi dieci anni. Sebbene le misure di gestione della pesca debbano essere costantemente implementate per non tornare indietro, si può dire che si sia raggiunto un equilibrio relativamente accettabile.
Se però si osserva che cosa è accaduto agli squali, la situazione è diametralmente opposta, al punto che sono in cima alla lista dell’IUCN. Questo accade perché la loro pesca, pur essendo vietata in alcuni paesi è comunque praticata illegalmente, dato l’elevato valore commerciale che ha in alcune nazioni. Per quanto riguarda la pesca involontaria non ci sono regole. Quando gli squali sono catturati per errore, sono semplicemente ributtati in mare e questo comportamento ha un esito disastroso, non solo per gli squali, ma per tutta la biodiversità marina.
Purtroppo sulla pesca involontaria è molto complicato intervenire. Secondo gli autori bisognerebbe sostenere le flotte dotandole di attrezzature in grado di risparmiare gli squali, sia evitando di pescarli, sia riuscendo a metterli in acqua prima che muoiano. Il problema è che i pescatori che non hanno interesse a catturare gli squali perché non rappresentano una fonte di guadagno non hanno interesse a investire denaro. Parallelamente, bisognerebbe introdurre controlli e sanzioni. Tutto ciò dovrebbe essere regolato da trattati internazionali basati su pratiche di (scientificamente) comprovata efficacia. Ma ciò che forse è ancora è più importante, in un’ottica globale, è il ruolo della gestione, diventata imprescindibile. Il mare è in sofferenza, e l’unico modo per poter continuare a ottenere da esso proteine nobili è gestire al meglio le attività umane, prima che sia tardi.
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Giornalista scientifica