Proteggere ampie zone di mare, vietando la pesca e tutte le attività che possono avere un impatto sull’ecosistema marino, è una scelta grazie alla quale tutti vincono, win-win. Le aree protette, infatti, consentono la rigenerazione delle popolazioni di pesci, crostacei e di tutti gli altri esseri viventi che popolano le acque, e la ricostituzione delle barriere coralline e dei sedimenti. E tutto questo si trasmette – è il caso di dirlo – come un’onda anche nelle zone limitrofe, con benefici anche per la pesca e il turismo.
Non tutti la pensano così, in merito ai provvedimenti da prendere per permettere al mare, sempre più depauperato e inquinato in moltissime zone del pianeta: secondo alcuni, sarebbe meglio continuare con le normali attività, ma regolamentarle meglio. Tuttavia, uno studio pubblicato su Science e uno uscito su One Earth confermano che la protezione paga, almeno nelle realtà prese in esame.
Il primo caso è particolarmente interessante, perché riguarda una delle riserve marine più grandi al mondo, quella del Papahānaumokuākea Marine National Monument, alla Hawaii, istituita nel 2006 e poi ampliata nel 2016, fino a raggiungere 1,5 milioni di km quadrati. I biologi marini del Cooperative Institute for Marine and Atmospheric Research dell’Università delle Hawaii di Mānoa, Honolulu, hanno studiato che cosa è successo tra il 2010 e il 2019 alla pesca di due specie di tonni a elevato valore commerciale, il tonno a pinne gialle (Thunnus albacares) e il tonno obeso (Thunnus obesus) nelle zone esterne alla riserva, estendendo le rilevazioni fino a 600 miglia nautiche (oltre 1.100 km) dai suoi confini. Finora, infatti, per lo più erano stati condotti studi su specie stanziali quali le aragoste, e si era visto che le popolazioni crescevano rapidamente, ai confini delle aree protette. Ma quasi nessuno aveva analizzato l’evoluzione di specie migratorie come i tonni. Tenendo come parametro il numero di esemplari pescati ogni mille ami messi in mare, i ricercatori hanno dimostrato che nell’ultimo decennio la pesca è aumentata, nelle acque limitrofe alla riserva. Entro cento miglia nautiche da essa, la percentuale di tonni pinne gialle è cresciuta del 54% e quella dei tonni obesi del 12%, e anche per altre specie si è visto un chiaro incremento. L’estensione della riserva, che è lunga più di 2.000 km, e la sua disposizione lungo l’asse ovest-est, hanno spiegato gli autori, gioca un ruolo di grande importanza, perché incrocia le rotte dei tonni, che possono riprodurvisi indisturbati, e non è quindi detto che altre aree protette abbiano lo stesso effetto. Tuttavia, questo immenso parco marino può costituire un modello per paesi che decidessero di crearne di nuovi, perché dimostra che il posizionamento dei confini ha un ruolo di importanza assoluta.
Anche il secondo studio, pubblicato su One Earth dai ricercatori della Ocean-Climate Platform dello Stockholm Resilience Centre dell’Università di Stoccolma insieme a colleghi statunitensi e francesi, conferma i benefici delle riserve marine. In questo caso gli autori hanno analizzato la letteratura esistente, trovando oltre 22.000 articoli scientifici dedicati a 241 aree protette e ciò che ne è emerso è che anche piccole variazioni nelle alghe o nelle mangrovie hanno ripercussioni molto rilevanti non solo sulle popolazioni di pesci, celafopodi, crostacei e molluschi e sulla biodiversità in generale, ma anche sulla pesca e sul clima, perché alghe e mangrovie sono una parte essenziale del sistema di regolazione degli strati di acqua, della temperatura dell’aria e della cattura della CO2.
Infine, quasi a rappresentare l’altra faccia del problema, lo stesso numero di Science ospita un lavoro firmato da dieci esperti nella quale si chiede l’istituzione di un’area protetta con divieto di pesca nel mare che circonda l’Antartico, cruciale per tutta la Terra. L’ecosistema marino antartico è uno dei meglio conservati al mondo, e da esso dipendono i delicatissimi equilibri delle più svariate forme di vita, dal krill alle balene, passando per gli uccelli marini, i pesci, le foche, i microrganismi. Anni e anni di pesca intensiva soprattutto del merluzzo antartico (Dissostichus mawsoni), o del krill usato per i supplementi e per i mangimi delle acquacolture, e cioè delle due popolazioni in cima e in fondo alla catena alimentare, insieme ai cambiamenti climatici, hanno messo in serio pericolo tutta la regione, a fronte di benefici solo per pochissimi paesi quali il Cile, e ora si teme di essere prossimi a un punto di non ritorno, oltre il quale tutta la catena alimentare mondiale sarà a rischio.
Grazie agli accordi internazionali del Trattato Artico, la Commission for the Conservation of Antarctic Marine Living Resources (CCAMLR) nel 2016 ha istituito una grande riserva, che si estende per oltre 1,1 milioni di km quadrati nel mare di Ross, e nella quale sarà vietato pescare fino al 2052. Ma secondo i firmatari del lavoro bisogna fare molto di più, anche perché la maggior parte delle limitazioni della pesca dal krill terminano alla fine dell’anno, e andrebbero non solo rinnovate, ma anche rinforzate. Bisogna ampliare la protezione, prima che sia tardi.
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Giornalista scientifica