Di agricoltura urbana si sente parlare sempre più spesso. Dalle piccole coltivazioni messe a dimora all’interno delle città o in spazi verdi dedicati deriva ormai un quantitativo di alimenti vegetali che si stima, a livello mondiale, sia compreso tra il 5 e il 20% del fabbisogno (a seconda delle città). Questo tipo di coltivazione è spesso incentivato per migliorare l’autosufficienza delle comunità e diminuire gli impatti ambientali legati al trasporto e alle grandi monocolture. Ma quali sono le rese rispetto all’agricoltura tradizionale, e quale metodo di coltivazione risulta ottimale?
Negli ultimi anni, centinaia di studi di singole realtà hanno cercato di dare risposte a questi quesiti, ma è sempre mancata una visione più generale, in grado di fornire linee guida per evitare di investire in colture destinate a fallire per motivi ambientali o economici. Per questo i ricercatori dell’Università di Lancaster, nel Regno Unito, hanno cercato di strutturare le conoscenze attraverso la metanalisi di centinaia di lavori che hanno affrontato i diversi aspetti, selezionandone 200 condotti in 53 paesi che hanno fornito oltre 2mila singoli dati. Il risultato è stato pubblicato su Earth’s Future, e potrebbe essere di grande aiuto alle comunità che decidono di sostenere gli sforzi dei propri cittadini, o di investire direttamente nell’agricoltura urbana.
Innanzitutto, è emerso un dato poco scontato: la maggior parte delle colture rende meglio in città che in campagna. Accade con i cetriolini e i cetrioli, la cui resa, in un ambiente urbano, va da due a quattro volte rispetto a quella rurale. Lo stesso si vede con la lattuga e altri tipi di insalate, molti tuberi, peperoni, pomodori, cavolfiori e altre brassicacee, aglio, carote ed erbe aromatiche, che si trovano più a loro agio in città. In altri casi la sfida finisce in parità o quasi, con un lieve vantaggio per gli orti urbani, come per i legumi, le piante da olio, il riso e i cereali, i piselli e le fragole, mentre le sole coltivazioni che non hanno successo in zone urbanizzate sono le piante da cui si ricava lo zucchero come la barbabietola.
Questi dati sono particolarmente interessanti perché, forse per la prima volta, mettono insieme quanto si ottiene in aree verdi dedicate come gli orti urbani, con la resa delle zone che gli autori chiamano grigie, cioè cementificate, quali i tetti e i terrazzi o i piccoli spazi condominiali, fornendo così un quadro molto più realistico. Ma c’è di più. Non tutti gli ambienti sono adatti a tutte le piante, e per alcuni sarebbe opportuno scegliere accuratamente dove avviare la coltura. I pomodori, per esempio, così come la maggior parte delle verdure a foglia verde, crescono molto bene in coltivazioni idroponiche che, oltretutto, quando sono al chiuso, assicurano una resa continua tutto l’anno. Diversi tipi di lattuga, cavolo e broccoli sembrano preferire il vertical farming alla coltivazione tradizionale in orizzontale, senza differenze significative tra gli ambienti esterni e quelli indoor, o la somministrazione di acqua e nutrienti classica o idroponica, mentre ovviamente gli alberi da frutta e i cereali non vengono messi a dimora in verticale, e quasi mai al chiuso.
Meno chiari, per il momento, sono i dati sulle rese globali dell’agricoltura urbana e su quanto, realisticamente, una città può attendersi di produrre nel suo territorio in base anche alle caratteristiche geografiche e demografiche. La stessa cosa si può dire per l’impronta ambientale delle coltivazioni urbane, da definire meglio e, soprattutto, da confrontare con quella dei campi fuori città. Sarà necessario analizzare tutti i dati, per fornire ai decisori strumenti scientificamente validi, ma gli studi iniziano a essere davvero numerosi. Secondo gli autori con ogni probabilità nei prossimi anni la situazione sarà molto più definita e aiuterà a pianificare e a gestire questa preziosa risorsa meglio di quanto non sia avvenuto finora.
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Giornalista scientifica