Secondo una stima del World Economic Forum, oltre il 50% del prodotto interno lordo mondiale dipende in maniera diretta o indiretta dalla biodiversità: una risorsa preziosa che purtroppo stiamo perdendo. L’allarme arriva dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), organizzazione intergovernativa indipendente, considerata la massima autorità scientifica mondiale sul tema, cui partecipano 140 dei 193 Stati aderenti all’Onu, tra cui l’Italia. Secondo Ipbes, un quarto circa delle specie animali e vegetali monitorate è a rischio di estinzione. Una vera emergenza, visto che la sopravvivenza delle popolazioni povere è direttamente legata alla ‘generosità’ della natura. A livello globale, infatti, una persona su cinque dipende per cibo e reddito da piante, animali, alghe e funghi selvatici, il che rende indispensabile garantire una forma di sfruttamento sostenibile di queste risorse. È dedicato a questo tema un rapporto Ipbes in corso di elaborazione, di cui è appena stato diffuso un sunto destinato ai decisori politici, che riassume le tematiche più importanti per delineare possibili soluzioni.
Partendo dai dati: oggi il 12% delle specie di alberi selvatici è minacciato dal disboscamento indiscriminato, 1.341 specie di mammiferi selvatici sono a rischio per pratiche di caccia non sostenibili, il 34% degli stock di pesci selvatici marini è sovrasfruttato. Proprio legname e pesce costituiscono i maggiori volumi e valori del commercio illegale di specie selvatiche: “In Italia sfruttiamo piante e animali selvatici locali meno di quanto avvenga altrove, ma dovremmo preoccuparci di quello che facciamo con risorse che provengono da altri paesi: un tema che anche l’Europa ha inserito tra i punti qualificanti della politica a favore della biodiversità”, ricorda Lorenzo Ciccarese, responsabile dell’area per la conservazione delle specie e degli habitat di Ispra, che partecipa ai lavori di Ipbes come rappresentante del Governo italiano.
Qualche esempio? “Se consideriamo la pesca – prosegue Ciccarese –, sappiamo che il nostro mare non basta a soddisfare le esigenze dei consumi: per questo, oltre ad allevare, importiamo moltissimo pesce pescato in altri mari”. Qualcosa di simile accade per il legno: siamo il primo Paese europeo esportatore di prodotti in legno finiti, ma per la materia prima dipendiamo da molti Paesi anche extraeuropei e tropicali, dove i sistemi di controllo sui prelievi sono meno rigorosi e lo sfruttamento del legname è uno degli elementi che contribuiscono alla deforestazione. “Esistono dei sistemi di certificazione sulla provenienza del legname, ma non tutti i produttori li utilizzano – spiega Ciccarese –. La causa principale della deforestazione è però la distruzione di habitat naturali per disporre di suoli da dedicare all’allevamento o alla produzione di mangime per il bestiame, pensiamo alla soia e ad altre materie prime che importiamo. Anche se negli ultimi anni si sta lavorando sulla certificazione etica e ambientale dei prodotti. In questo senso il nostro paese si è mosso abbastanza bene, tanto che diversi marchi italiani sono diventati casi di successo in fatto di sostenibilità”.
Proprio la distruzione degli habitat naturali è al primo posto nell’elenco dei pericoli che minacciano l’ambiente stilato da Ipbes: “Si parla di foreste, ma anche di aree costiere e umide”, spiega Ciccarese. A questo si aggiungono, oltre al prelievo eccessivo di risorse su cui si concentra il rapporto, l’inquinamento e i danni causati dai cambiamenti climatici e da specie aliene invasive, animali e vegetali, senza dimenticare i danni causati da parassiti e patogeni arrivati a causa dei cambiamenti climatici o dell’intensificarsi del commerci internazionali e della globalizzazione. L’invito è a smettere di considerare la natura come qualcosa da predare indiscriminatamente: “Stiamo perdendo la diversità tra le specie – osserva l’esperto – e quella all’interno delle specie, un patrimonio genetico che sarebbe prezioso in tempi di cambiamento climatico”.
Obiettivo del rapporto è la conservazione del massimo numero possibile di specie, ma anche la definizione di un uso sostenibile delle risorse, cui si aggiunge l’invito a condividerne equamente i benefici tra produttori e utilizzatori. “L’esperienza insegna che una politica basata solo su proibizioni e vincoli non è efficace – ricorda Ciccarese –”. Molte specie a rischio fanno parte dell’uso tradizionale di diverse culture che nel corso del tempo hanno sviluppato pratiche di utilizzo sostenibile, un patrimonio di conoscenze che andrebbe recuperato. “Il rapporto evidenzia come una soluzione possa venire solo dal dialogo tra la scienza e i saperi delle comunità locali che fanno uso da sempre di queste specie selvatiche – ricorda l’esperto –. Un’esperienza che può apparirci lontana, ma pensiamo alla tradizione, diffusa fino a qualche decennio fa nelle nostre campagne, di raccogliere erbe selvatiche commestibili facendo attenzione a non depauperare risorse a disposizione di tutti”.
Un approccio valido ancora oggi: l’esperienza mostra che uno sforzo di dialogo e coinvolgimento può garantire risultati positivi. “Per tornare alla pesca – ricorda Ciccarese –, possiamo considerare anche come sia stata ricostituita la popolazione di tonno rosso dell’Atlantico, in passato gravemente a rischio e ora pescata a livelli sostenibili”. Resta invece critica la situazione degli squali pescati soprattutto per le pinne. “Questo accade forse anche per la fama di questi animali, a favore dei quali è più difficile attivare una mobilitazione – prosegue l’esperto –. Senza dimenticare il problema della pesca accidentale”. Il dialogo con il territorio resta comunque fondamentale anche quando si parla di gestione delle aree protette. “Queste aree – conclude Ciccarese – sono lo scheletro portante della conservazione, ma anche una risorsa economica importantissima: se puntiamo a tutelare in questo modo il 30% del territorio, dobbiamo gestirlo in modo adeguato e possiamo farlo solo con il coinvolgimento delle popolazioni locali”.
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