Il cambiamento climatico potrebbe avere conseguenze rilevanti sulle filiere alimentari. Due studi pubblicati nella prima metà del mese di dicembre 2021 aiutano a capire come influirà sul settore dell’acquacoltura e sull’habitat dei salmoni selvatici. Nel primo studio, uscito su Global Change Biology, i ricercatori dell’Università canadese della Columbia britannica e dell’Università di Berna (Svizzera) hanno studiato le trasformazioni a cui potrebbe andare incontro l’industria dell’acquacoltura, che oggi fornisce oltre la metà del pesce consumato nel mondo e su cui si conta molto anche per i prossimi anni.
Per farlo i ricercatori hanno analizzato i dati di circa il 70% della produzione marina del 2015, tenendo conto anche di altri fattori, quali la disponibilità di aree per l’acquacoltura e di alimenti per il pesce allevato e il cambiamento delle temperature degli oceani. Dall’analisi è emerso che, se non si farà nulla per mitigare il riscaldamento globale, entro il 2090 la quantità di prodotti da acquacoltura marina, come il salmone e i molluschi, potrebbero diminuire del 16%, dopo un iniziale aumento dell’8% entro il 2050. Se invece verranno adottati provvedimenti efficaci per contenere il rialzo termico, si potrebbe avere una crescita del 17% verso metà secolo e del 33% alla fine dello stesso.
In uno scenario di mantenimento di alte emissioni, le aree più colpite saranno Cina, Bangladesh, Norvegia, Paesi Bassi e Myanmar. In queste aree la produzione potrebbe crollare tra il 40 e il 90%. Molto dipenderà, però, anche da altri due fattori: il primo è il tipo di pesce. Nelle regioni in cui si coltivano bivalvi (come cozze, ostriche e vongole), l’impatto sarà molto inferiore rispetto a quelle dove predominano gli allevamenti di pesci, come i salmoni, per la diversa incidenza che hanno le forniture di cibo come l’olio o la farina di pesce.
Quindi, mentre negli allevamenti di pesce come il salmone si prevede un calo del 3% entro il 2050 e del 14% entro il 2090, per quelli di bivalvi i modelli mostrano un aumento della produzione entro il 2050 e un decremento nella parte finale del secolo, in entrambi gli scenari climatici. In secondo luogo conta molto il tipo di mangime. Chi si affida esclusivamente alle farine e agli oli estratti dai piccoli pesci, come le acciughe e le aringhe, è molto più a rischio rispetto a chi utilizza proteine vegetali. Anche le riserve di questi pesci impiegati come mangime sono minacciate dal cambiamento climatico.
Lo studio illustra più nel dettaglio quanto una scelta di mangimi con proteine di origine vegetale possa mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Se un quarto degli alimenti per l’acquacoltura marina viene sostituito con proteine vegetali, in uno scenario di emissioni ridotte, la produzione complessiva di potrebbe aumentare del 25% entro il 2050 e del 31% entro il 2090. Se invece non ci saranno modifiche delle emissioni, gli stessi valori sarebbero rispettivamente +15% e poi solo +4%. Ovviamente, nel caso la percentuale di alimenti non animali forniti all’ acquacoltura aumentasse, le produzione crescerebbe parallelamente. Molto dipenderà quindi scelte dei prossimi anni.
Il secondo modello, elaborato dai ricercatori della Flathead Lake Biological Station dell’Università del Montana, e descritto su Nature Communications, è invece incentrato su un possibile effetto parzialmente positivo del disastro ambientale dovuto allo scioglimento dei ghiacciai: almeno per quanto riguarda la costa dell’Oceano Pacifico settentrionale, gli habitat adatti ai salmoni selvatici potrebbero infatti aumentare di oltre 6 mila km entro il 2100.
Per giungere alla loro conclusione, gli autori hanno simulato a computer uno scenario di moderato cambiamento climatico, con lo scioglimento di 46 mila ghiacciai situati tra la Columbia britannica e l’Alaska meridionale e hanno poi cercato, tra questi, i luoghi che, essendo collegati all’oceano e caratterizzati da una pendenza uguale o inferiore al 10%, rappresentano un habitat ideale per i salmoni. Ne hanno così individuati 315, per un’estensione, appunto, di 6.100 chilometri, una lunghezza quasi equivalente a quella del fiume Mississipi.
Non si tratta comunque di una buona notizia da sopravvalutare: in primo luogo, infatti, il costante riscaldamento finirebbe comunque per far scomparire anche questi nuovi habitat, inoltre i salmoni dovrebbero fare i conti con altri elementi di impatto negativo dell’uomo sull’ambiente, come per esempio il riscaldamento dei fiumi, i cambiamenti nei flussi delle correnti e le condizioni sempre peggiori in cui versano gli oceani. In entrambe le simulazioni, in definitiva, si mettono in guardia gli umani: se le politiche di contenimento del mutamento climatico non diventeranno una priorità assoluta e non saranno messe in atto con determinazione, le conseguenze ricadranno in maniera diversa anche sulla catena alimentare.
© Riproduzione riservata; Foto: AdobeStock, Fotolia, Compassion in World Farming
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica