Tutti i materiali ‘biologici’ utilizzati e messi in circolo dall’uomo devono essere rigenerati dalla biosfera, quelli ‘tecnici’, invece, non vi devono mai entrare. È questa la definizione di economia circolare proposta dalla fondazione McArthur, una delle istituzioni più note degli Usa tra quelle impegnate nella lotta ai cambiamenti climatici e nelle battaglie etiche e sociali. Si tratta di una definizione oggi sempre più importante. Per le aziende è arrivato il momento di superare il concetto di sostenibilità e di sposare un approccio più ampio, che prevede l’adozione di una visione circolare dell’economia. È questa la convinzione dell’ente indipendente internazionale Dnv, fornitore di servizi di certificazione e verifica, che lo scorso settembre ha reso noti i risultati di un’ampia ricerca sull’approccio delle aziende a questo tema.
L’indagine, realizzata su 793 imprese di Europa, Asia e America, tra cui un centinaio operanti nell’ambito alimentare, ha dimostrato quanto il concetto di economia circolare si stia facendo largo anche in questo settore. “I risultati mostrano che c’è crescente attenzione su questi temi – sottolinea Federica Guelfi, circular economy project manager in Dnv –, anche in risposta alla pressione che le aziende ricevono dai governi e dai consumatori. Lo riscontriamo nel lavoro che facciamo quotidianamente con le aziende”. Secondo i risultati dell’indagine, più del 43% delle società che operano nel settore alimentare si sta interrogando sull’integrazione dell’economia circolare nella propria strategia. I motivi che spingono le imprese a questo tipo di scelta sono diversi. Tra tutti, quello principale è la volontà di ottimizzare i processi operativi e le risorse (63,2%). Più della metà (51%) lo fa anche per migliorare la propria reputazione e, vista la crescente sensibilità dei consumatori per il tema, per rinsaldare la relazione con i clienti (38%).
“In una prima fase – prosegue Guelfi – le aziende puntano soprattutto su iniziative che consentono di minimizzare gli sprechi (38%). Questo accade per esempio riducendo le risorse impiegate, come le quantità di materiali per gli imballi. Il passaggio successivo è rappresentato dalla scelta delle cosiddette forniture circolari (20%), cioè la sostituzione delle risorse tradizionali con alternative completamente rinnovabili, come accade con le nuove bioplastiche negli imballi o con le fonti energetiche”. Un altro aspetto chiave è la capacità di collaborare con altre imprese capaci di fare rete nell’impegno comune a realizzare soluzioni circolari. Lo confermano anche le attività messe in atto dalle aziende del campione. Tra le più significative spiccano quelle nelle quali sono coinvolti i fornitori (37%), ma non mancano le attività di logistica inversa (19%), che prevedono la restituzione degli imballi, o le soluzioni realizzate con professionisti del riciclo o della manutenzione (48%) e, in qualche caso, anche con le associazioni dei consumatori (9%). Qualsiasi sia il modello adottato, è importante che siano garantite la scientificità e la trasparenza nell’implementazione delle iniziative e nel calcolo dei benefici ottenuti, per evitare il rischio di greenwashing.
“Tra gli esempi di economia circolare più significativi del settore food – racconta Guelfi –, spicca l’uso di modelli predittivi per evitare lo spreco alimentare nell’e-commerce e promuovere la gestione circolare degli imballaggi . Interessanti sono anche le iniziative che puntano sull’applicazione dei principi dell’agricoltura rigenerativa, che ripensa le attività agricole in maniera che gli ambienti siano in grado di rigenerarsi naturalmente, senza ricorrere all’uso estensivo dei fertilizzanti. L’approccio rigenerativo è poi applicato anche alla pesca, dove sono messe in pratica soluzioni che permettano alla popolazione ittica di ripopolarsi. Molte delle iniziative delle imprese alimentari prese in considerazione nello studio sono legate alla gestione degli imballi. I principi dell’economia circolare privilegiano l’uso di materiali compostabili, in grado di rientrare nel ciclo naturale, oppure, nel caso ciò non sia possibile, l’azienda dovrebbe provvedere a un recupero completo degli imballi, per destinarli a un nuovo utilizzo. L’economia circolare chiede insomma alle imprese una responsabilità completa sull’intero ciclo di vita dei prodotti”.
In tutte le iniziative, inoltre, è fondamentale anche il ruolo del consumatore, che deve essere coinvolto come parte attiva della filiera. Gli utilizzatori dei beni andrebbero invitati a collaborare anche attraverso incentivi di tipo economico come gli sconti per il reso dei vuoti o la detassazione dei ‘materiali circolari’, che finirebbe per rendere più convenienti i prodotti sostenibili. “Per ottenere questo – sottolinea Guelfi – il costo ambientale dovrebbe essere ricompreso in quello dei prodotti, come avverrebbe nel caso di applicazione delle tassazioni ambientali oggi in discussione, tra cui per esempio la plastic o la carbon tax”.
Le aziende, partecipanti allo studio, dal canto loro, hanno dichiarato che l’aver implementato progetti, azioni o strumenti di economia circolare ha prodotto benefici, soprattutto in termini di risparmio (58%); e di reputazione (47%). Che cosa frena, allora, le imprese? In primo luogo i costi (41%), ma non solo. Decisiva è anche la mancanza di un quadro di riferimento tecnico e legale comune (41%) e di incentivi economici e normativi (38%). “Il vero cambiamento – chiarisce Guelfi – si avrà quando le aziende non si impegneranno più su iniziative riguardanti un singolo aspetto, ma imposteranno sui principi dell’economia circolare tutta la propria attività”. Per il momento, nel settore alimentare, questa scelta riguarda poco più di un’azienda su dieci.
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Grazie per l’articolo.
Mi sembra un argomento di studio fondamentale in un mondo dalle risorse non illimitate, al contrario del numero di individui da soddisfare in continua ascesa e dalle ambizioni sempre più impegnative e variegate e apparentemente poco interessate alla eredità ambientale che lasciamo alle generazioni future.
La signora Ghelfi però, sapendo di che cosa parla, avverte che per ora molte entità cercano principalmente di migliorare la propria reputazione alla ricerca di clientela sensibile proponendosi come attuatrici di una parte (molto parziale) della circolarità, si dirà “meglio di niente” ma d’altronde la spinta consumistica si nutre più di slogan che di integrale circolarità, descritta come da inequivocabile definizione iniziale.
Volendo sviluppare un concetto ci sarebbe spazio per infinite ricerche e applicazioni, prodotti e servizi ad impatto neutro e anzi ad incremento di vitalità ambientale e sociale, solo si impone un drastico cambio di visione etica.
Ma perchè cambiare un sistema che funziona così bene come quello attuale? Perchè non fidarsi e lasciare al mercato la regolazione delle varie situazioni e criticità? Perchè non fidarsi dell’ingeniosità che, stando a promesse reiterate e rumorosamente amplificate, ci ha accompagnato alla soglia di rivoluzioni eccezionali e (quasi) miracolose?
Da vegetariano e amante del biodinamico ho un parere interessato alle argomentazioni polemiche (del tipo mangiatori vs non mangiatori di carne, utilizzatori o meno di concimi/pesticidi/medicinali ) ma sono sempre più convinto che arrivati alla cima delle considerazioni alimentari sia molto più importante la pura qualità del cibo ( compresa la completa informazione integrata sottostante ) e la quantità giusta senza sprechi piuttosto che la assoluta condanna di una certa tipologia di alimenti pur da mangiare molto saltuariamente.
So bene che i vegani si arrabbiano ma non è una eresia dire che per mangiare noi umani dobbiamo uccidere qualcuno o qualcosa, tempo al tempo siamo ancora nella fase in cui più si studia e più si dovrebbe capire che le cose sconosciute aumentano, come l’espansione dell’Universo………….