Caffè, cacao, vaniglia, zafferano, spezie, e probabilmente anche la carne saranno i primi alimenti, oggi disponibili in tutti i supermercati, che potrebbero diventare beni di lusso a causa del cambiamento climatico. Una serie di prodotti oggi venduti a prezzi accessibili stanno infatti diventando sempre più costosi e difficili da ottenere in grandi quantità in seguito al moltiplicarsi di fenomeni come l’innalzamento della temperatura, la siccità, i parassiti e le alluvioni. Questo ne cambierà il mercato e, di conseguenza, il posizionamento. A fare il punto sui cibi più minacciati dal clima è la Bbc. In un lungo articolo, la testata britannica ricorda che eventi di questo tipo sono già avvenuti molte volte nella storia, ma solo in minima parte, finora, si sono potuti attribuire al clima.
Uno degli esempi più noti è quello degli astici degli Stati Uniti, considerati alimenti per poveri fino ai primi dell’Ottocento e utilizzati soprattutto per i carcerati o come fertilizzanti, in seguito sono diventati alimenti ricercati e costosi. Questo è avvenuto in correlazione con lo sviluppo delle ferrovie, dove vennero proposti ai passeggeri facoltosi che non erano a conoscenza della loro cattiva reputazione, decretandone così un successo mai visto prima. Lo stesso accadde con le ostriche in Inghilterra: sfruttate soprattutto nei mangimi per animali e come addensanti per torte e stufati, all’inizio del XX secolo, diventate più rare a causa dell’inquinamento delle coste dovuto allo sviluppo dell’industria, divennero anche molto più costose e questo decretò il cambiamento del loro status. Un percorso inverso è invece quello del salmone e dello zucchero: via via che presero piede gli allevamenti e le coltivazioni, infatti, il loro posizionamento sul mercato passò da quello di beni di lusso a quello di merce comune.
La percezione di un alimento, oggi come ieri, dipende quindi soprattutto da dinamiche di tipo commerciale. Questo può alimentare pericolosi circoli viziosi. Lo si vede, per esempio, nei famigerati wet market orientali, dove sono in vendita specie a rischio di estinzione, ma anche di spillover di infezioni, che proprio perché vietate, e quindi costosissime, sono ricercate da élite desiderose di affermarsi socialmente. Tale fenomeno alimenta il mercato clandestino, con danni sulla biodiversità e sull’ambiente e rischi per tutti. In futuro, comunque, per alcuni alimenti i cambiamenti potrebbero essere obbligati, soprattutto a causa dei mutamenti del clima. Tra questi il cacao, utilizzato dai Maya come moneta, importato in Europa dai conquistadores spagnoli e trasformato in polvere da sciogliere in acqua, quindi in bevanda per tutti, grazie al procedimento messo a punto dall’olandese Van Houten nel 1828, potrebbe presto ritornare a essere un bene di lusso. Secondo uno studio del 2013, infatti, con un aumento di 2° centigradi, vaste zone del Ghana e della Costa d’Avorio, tra i principali produttori al mondo, potrebbero diventare inadatte alla sua coltivazione.
Lo stesso vale per il caffè, utilizzato a fini rituali in Etiopia, prima di essere esportato in Europa. Secondo un altro studio, nel 2050 metà delle terre oggi coltivate a caffè potrebbero non essere più adatte a tale coltivazione. Tesi confermata anche da un’altra ricerca, in base alla quale, sempre entro il 2050, l’88% delle piantagioni di caffè del Sud America potrebbe fare la stessa fine. Un destino analogo sarebbe quello di alcune spezie, per secoli protagoniste assolute di traffici e rotte commerciali in tutto il mondo: siccità, umidità e aumento delle temperature, che favoriscono parassiti quali gli afidi, le stanno minacciando ovunque. È accaduto, per esempio, in Kashmir, dove il raccolto dello zafferano è ad alto rischio; ma anche in Madagascar, patria della vaniglia, flagellato nel 2017 da un ciclone di enorme intensità, che ne ha ridotto del 30% i raccolti, facendo lievitare il prezzo sopra i 600 dollari al chilo, cioè più dell’argento.
E poi c’è la carne, che in questo panorama occupa una posizione del tutto particolare. Molto presto il suo consumo potrebbe diventare socialmente inaccettabile (addirittura, scrivono gli autori, paragonabile al fumo di sigaretta, quanto a discredito sociale), visti i costi ambientali associati all’allevamento e alla produzione. In parte è già così, anche se il suo consumo è profondamente radicato in moltissime culture alimentari e sarà difficile modificare abitudini sedimentate per secoli. In ogni caso, secondo gli autori, è certo che diventerà molto più costosa di quanto non sia oggi: la crisi del clima è dovuta anche al fatto che gli allevamenti sono stati sovvenzionati per decenni e un costo che non corrisponde affatto a quello reale ha favorito un eccesso di consumi, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Una situazione che non può, e non deve, durare. Occorre in generale che il cibo abbia un prezzo realistico, collegato alla sua impronta sul clima, e che alimenti particolarmente costosi in termini ambientali siano sottoposti anche a una tassazione specifica. Quest’ultima aiuterebbe a contenere i consumi e a ripagare i costi di ciò che si deve fare per rimediare ai danni a essa associati.
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Giornalista scientifica