Di impronta ambientale legata al cibo si sente parlare sempre più spesso. Ma come fare per calcolarla, e cercare quindi di ridurla? La domanda è tutt’altro che futile, perché esistono diversi tipi di impronta, oltre a quella generale, perché a comporli contribuiscono molte variabili e perché le informazioni necessarie al calcolo spesso sono assenti in etichetta, e in generale non sono facilmente accessibili.
Per questo la BBC inglese ha chiesto agli esperti dell’Università di Oxford e all’agenzia VerveSearch di elaborare un calcolatore facile da usare, che permetta di valutare l’impronta settimanale in base al consumo di alimenti importanti quali la carne, il latte, le verdure, la pasta, con un metodo di conversione in km percorsi da un’auto a benzina. Il calcolatore consente poi anche di correggere la dieta e di capire in che misura cambiare una certa abitudine alimentare potrebbe modificare la propria impronta.
I calcoli tengono conto di fatti poco scontati come, per esempio, il grande consumo di acqua e le emissioni di metano e gas d’azoto associati al riso, e sarebbero teoricamente da adattare alla zona in cui si vive: per esempio, mangiare regolarmente pomodori ha un’impronta ambientale bassa se si vive nei paesi del Mediterraneo del Sud (dove comunque la loro coltura implica un grande consumo di acqua), ma ne ha una alta se si vive nei paesi del Nord Europa, dove gli stessi crescono in serre riscaldate. Si calcola che, a seconda della zona di residenza, l’impronta del cibo sui gas serra rappresenti tra il 10 e il 30% di quella prodotta da ogni essere umano, mentre quella globale, di tutta la filiera (dalla semina al trasporto fino al consumo e allo spreco), e sempre per quanto riguarda i gas serra, sia compresa tra il 21 e il 37% di quella generata da tutte le attività antropiche. Inoltre, si calcola che nel 2050 metà di tutti i gas rilasciati in atmosfera arriveranno dal cibo, considerando ogni passaggio.
Infine, conta anche ciò che non si mangia, cioè ciò che si spreca: secondo uno studio svedese, 3 kg di cibo buttato equivalgono a 23 kg di metano rilasciati in atmosfera, mentre secondo uno studio italiano, se il cibo avanzato fosse usato per il compost le emissioni potrebbero ridursi del 14%. Naturalmente, se fosse consumato, la riduzione sarebbe ancora più significativa.
Come ha ricordato la commissione Eat di Lancet, in media i popoli dei paesi più ricchi dovrebbero raddoppiare il loro consumo di frutta e verdura, noci e legumi. Rimpiazzare anche solo in parte la carne e i derivati del latte con prodotti vegetali, oltre a fare bene alla salute, aiuterebbe a ridurre molto l’impronta ambientale (anche dei due terzi, come ha dimostrato uno studio uscito nel 2018 su Science). Strumenti come questo calcolatore possono aiutare ogni cittadino ad andare in quella direzione.
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[sostieni]
Giornalista scientifica
I calcoli ………… sarebbero teoricamente da adattare alla zona in cui si vive.
Questo è il punto centrale e più valido del ragionamento preannunciando che un grande risparmio si realizza utilizzando prodotti coltivati ( o allevati) nelle vicinanze dei consumatori, nel rispetto locale e stagionale della produzione all’aria aperta e senza sprechi rilevanti.
Se un processo costitutivo dell’alimento, come l’allevamento del bestiame nelle pampas argentine per fare un esempio, si fonda su acqua verde, cioè piovana, che abbevera gli animali e fa crescere l’erba che li nutre allora non c’è “spreco”, parlare di consumo è confondente e il progetto è sostenibile.
Se invece vogliamo coltivare piante idrovore in territori riarsi e dobbiamo usare acqua fossile allora i progetti andranno rivisti in favore di coltivazioni risparmiatrici di risorse discriminanti, a maggior ragione consumare acqua scarsa e preziosa per allevamenti intensivi ha poco senso nelle stesse zone riarse, invece i pastori africani ci insegnano che l’allevamento primordiale è comunque sostenibile e concreto a certi livelli.
Per quello che riguarda l’acqua, vero collo di bottiglia, “consumare” comunque ha davvero poco senso, visto che l’acqua non si “consuma”, bensì si trasforma. Il ciclo dell’acqua esiste da quanto l’acqua stessa è presente sul Pianeta, quindi pensare che un turno irriguo la “consumi” è del tutto fuorviante. Semmai, vanno considerati gli usi alternativi che necessitano della medesima acqua in maniera più appropriata per la vita.
https://www.aliceforchildren.it/perche-in-kenya/#:~:text=Il%20Kenya%20%C3%A8%20al%20146,anni%20%C3%A8%20sottopeso%20e%20malnutrito.
—— IL KENYA?
Il Kenya è al 146° posto dello Human Development Index.
Il 46,1% della popolazione è sotto la soglia di povertà e Il lavoro minorile incide ancora per il 26% sul totale dei bambini tra i 5 ed i 14 anni.
Il 6% delle persone sopra i 15 anni ha contratto l’AIDS e il 26% dei bambini sotto i 5 anni è sottopeso e malnutrito.
Il 40% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, mentre il 70% non ha accesso ai servizi igienici né all’energia elettrica.——–
Però in una vasta zona tra le più fertili vicino a Nairobi intorno al lago Naivasha, che si sta paurosamente inquinando e prosciugando per l’uso smodato, alcune multinazionali sovraintendono alla coltivazione di fiori, principalmente rose, che poi vengono spedite in Olanda per partecipare ai mercati globali e ai bisogni “primari” di “altri” esseri umani. Nei campi si impiegano molti abitanti locali ma con pochissimi diritti, condizioni infami e paghe scarse…..mentre ricavi molto più consistenti finiscono altrove.
Ecco, vorrei che qualcuno calcolasse l’impronta ecologica di tutto ciò, e mi dicesse che cosa rappresenta questo fenomeno, a me sembra una mostruosità.
E mi dispiace molto che trasmissioni come Dataroom affermino che “per aiutare l’Africa bisogna comprare rose, ma attenti alle etichette”…..mi scende la catena anche con la conduttrice che spesso ha lavorato in passato in maniera egregia.
Grazie Gianni, oltre a esprimere in modo chiaro quello che è anche il mio pensiero (post precedente), mi hai offerto ulteriori interessanti spunti di riflessione!