A volte cucinare diventa una fatica quotidiana, ma sono in molti a vivere con piacere le ore trascorse davanti ai fornelli. Un’indagine promossa da Lagostina mostra che tre italiani su cinque considerano la cucina una delle attività più rilassanti da praticare durante le ferie, preceduta solo dal tempo trascorso in mezzo alla natura, mentre secondo un sondaggio realizzato da GfK Sinottica il 55% degli italiani dedica molto tempo alla cucina e il 29% invita spesso amici a mangiare. E in questi mesi di quarantena preparare da mangiare in casa è stata per molti un’opportunità non solo per risolvere un problema pratico, come quello di procurarsi il pane fresco, ma anche per rilassarsi e condividere un’esperienza piacevole con i propri familiari.
Ed è la scienza a confermare che cucinare fa bene. Tanto che può essere una tecnica di rilassamento, ma anche una forma di allenamento che stimola fenomeni di plasticità neurale all’interno del nostro cervello. “Oggi la cooking therapy è spesso utilizzata per la riabilitazione di pazienti con deficit cognitivi, disabilità mentali o disturbi psichiatrici”, spiega Antonio Cerasa, neuroscienziato e ricercatore del Cnr, autore del saggio La cooking therapy da poco pubblicato da Franco Angeli. “In particolare – prosegue Cerasa – abbiamo visto che questo tipo di terapia è utile a persone con malattia di Alzheimer, o soggetti autistici che trovano rasserenante il susseguirsi di semplici mansioni che caratterizzano la cucina”.
La cucina, infatti, è un insieme di diverse operazioni che mantengono in esercizio le aree cerebrali preposte alla programmazione e al coordinamento di movimenti complessi: “Non è un caso che i cuochi professionisti abbiamo alcune aree del cervello particolarmente sviluppate, come avviene per i musicisti o gli scacchisti”, spiega Cerasa. Studi di neuroimaging mostrano in particolare che in questi soggetti c’è un aumento di volume del cervelletto, la parte del sistema nervoso centrale predisposta alla coordinazione motoria. “E sappiamo anche che cucinare può essere un’efficace terapia riabilitativa per pazienti che hanno subito danni a quest’area cerebrale – prosegue il neuroscienziato – Ma anche chi prepara semplicemente una torta o il pranzo per i propri familiari allena le proprie funzioni cognitive”. Per cucinare bisogna pianificare, organizzarsi e svolgere diversi compiti in simultanea: chi trova difficile cucinare ha difficoltà anche a programmare una giornata di lavoro.
La cucina però non è solo un allenamento mentale, ma anche un’occupazione rilassante che aiuta ad allontanare lo stress e i pensieri negativi. Tanto che oggi c’è chi propone lezioni di Cucina Consapevole – Mindful Cooking – che trasforma i gesti legati alla preparazione degli alimenti in una vera e propria pratica meditativa che aiuta a rilassarsi e anche a vivere in modo più sereno il rapporto con il cibo.
“La cucina è un’attività prevedibile, che ci permette di assistere alla trasformazione della materia; lavorare un impasto e poi metterlo a lievitare è un efficace antidepressivo, e i gesti ripetitivi della cucina hanno un effetto calmante”, spiega Cerasa. Possiamo dire lo stesso di altre attività, per esempio la maglia. Però la cucina è avvolgente, coinvolge tutti i cinque sensi, dal tatto quando mettiamo le “mani in pasta”, al rumore ritmico di un pestello che batte nel mortaio o di un mattarello, ai colori e ai profumi e finalmente al gusto. L’olfatto in particolare può riportarci ai ricordi d’infanzia: per questo è così importante per le persone con Alzheimer, per cui spesso gli odori sono un legame con la propria storia personale. Ma per tutti noi gli aromi di una vecchia ricetta di famiglia o il profumo di una torta appena sfornata possono essere un’occasione per rivivere emozioni e ricordi. Senza contare che la cucina è un’attività sociale: “Cucinare ci permette di far felici gli altri. – ricorda Cerasa –E per chi fa cooking therapy, come per esempio gli ospiti della Comunità di San Patrignano, lavorare per la felicità degli altri ha di per sé un effetto terapeutico”.
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giornalista scientifica
la cucino terapia è utilizzata da molti anni, ma sarebbe bene ricordare che come tutte le terapie non si improvvisano ma prevedono personale, come i terapisti occupazionali, con una formazione adeguata.
Perchè usare un termine inglese, per spiegare quella che per secoli era una semplice azione quotidiana (come bere l’acqua) che faceva chiunque, dal poveraccio al benestante?
Una considerazione sulle immagini e sulle pubblicita’ in genere: statisticamente quante famiglie dispongono di una cucina di 30m quadri? Le pubblicita’ dovrebbero presentare un mondo piu’ reale, meno da fiaba, e non stimolare le ambizioni inconsce dei consumatori.
Forse sarebbe ora, finalmente, di avere una pubblicita’ piu’ realista, piu’ servizio, e non tendenzialmente subornante, no? Grazie