Gli spot dei prodotti alimentari e di altri beni di consumo da diverse settimane invitano a consumare italiano e a ripartire scommettendo sull’Italia. Nel panorama troviamo un po’ di tutto, dai latticini ai salumi, dall’olio alle marmellate. Anche alcune catene di fast food evidenziano la matrice 100% nazionale dei loro prodotti. La cosa è del tutto comprensibile e giustificabile, anche se l’etichetta del made in Italy non è sempre indice di qualità superiore. Poi non bisogna dimenticare che il nostro Paese importa molti prodotti alimentari e il trend non è cambiato in seguito alla pandemia.
Se per certi alimenti, come la passata e le conserve di pomodoro, molti tipi di frutta e verdura, uova e pollame, siamo autosufficienti, per altri il deficit di materia prima è elevato, e si tratta sempre di numeri a due cifre. Prendiamo ad esempio l’olio extravergine di oliva: in questo caso la quota importata da Spagna, Grecia e Tunisia varia in relazione all’annata e al raccolto. La quantità oscilla intorno al 30%, ma si arriva al 50-60% quando l’annata in Italia è scarsa. Per questo motivo, a parte le poche bottiglie che indicano 100% italiano, negli altri casi l’olio extravergine è una miscela di materia prima nazionale con una quota rilevante di olio straniero.
Anche per la pasta il discorso è analogo. L’Italia importa il 20-30% di grano duro di ottima qualità da Francia, Canada e altri Paesi per preparare la “migliore pasta del mondo”. Pochi lo dicono, ma gli addetti ai lavori sanno che senza importazioni, la nostra pasta perderebbe di qualità e, comunque, in Italia non ci sono quantità di grano duro con elevate quantità di glutine in grado di soddisfare la domanda delle aziende. È vero che Barilla dopo un lavoro iniziato molti anni fa è riuscita a produrre pasta fatta solo con grano italiano, ma si tratta di un’eccezione. Anche altri marchi hanno linee di produzione 100% made in Italy, ma in genere si tratta di quote marginali, proprio perché la quantità di materia prima di qualità non basta a soddisfare le richieste dell’industria. Prova ne è De Cecco, che propone un ottimo prodotto realizzato con una parte consistente di grano duro straniero, come spiega nei messaggi pubblicitari apparsi sui giornali.
La maggior parte dei legumi non sono italiani, a causa di drastiche riduzioni delle coltivazioni a partire dagli anni ’50. Adesso le importazioni provengono principalmente da Stati Uniti, Canada e Cina. Per il latte la questione è articolata. Se per quello fresco in molte regioni si trova quello prodotto localmente, quando si sceglie il latte a lunga conservazione o quello di minor prezzo spesso bisogna rassegnarsi e comprare latte importato da Germania, Francia e altri Paesi europei. Questo però non vuol dire che la qualità sia inferiore.
Inutile dire che banane e altri tipi di frutta esotica, ma anche i mirtilli e i frutti di bosco, sono importati, così come una parte della frutta fuori stagione che ormai troviamo nei supermercati. Basta leggere con attenzione i cartellini con le indicazioni dell’origine esposti sugli scaffali, e fare “scomode” scoperte, come le pere o le mele del Sud-America. Per il caffè l’importazione è scontata, anche se le aziende italiane provvedono poi a fare la selezione delle miscele, la torrefazione, il confezionamento e la distribuzione.
Per la carne il discorso è ampio, perché quella di maiale fresca arriva in buona parte da animali cresciuti nel Nord-Europa. Quelli allevati in italia sono pochi e, in genere, si tratta di suini pesanti utilizzati per produrre prosciutti Dop o altri salumi a denominazione di origine. La bresaola Igp è prodotta in Valtellina con materie prime provenienti dall’estero, a causa dell’insufficiente quantità di animali allevati in Italia. Per la carne bovina l’approvvigionamento di animali nati e cresciuti all’estero come Francia e Polonia copre un fetta rilevante del mercato (10 – 30%).
Se per il sale siamo quasi autosufficienti, per lo zucchero importiamo grandi quantità dall’estero.
Per il pesce fresco il discorso è articolato. Le orate e i branzini venduti a prezzi stracciati o “in offerta” sono quasi sempre allevati in Grecia. In generale il pesce allevato in Italia costa il doppio perché cresce più lentamente ed è di migliore qualità. Calamari, polpi e altri molluschi surgelati sono nella stragrande maggioranza dei casi importati e pescati in altri mari. Il pesce fresco catturato con le reti nei nostri mari, copre il consumo locale o viene assorbito dal circuito dei ristoranti. Il salmone proviene dagli allevamenti norvegesi e in qualche caso cileni.
Detto ciò, continuiamo a preferire il prodotto made in Italy, ma non per questo possiamo ignorare che molte materie prime hanno un’altra origine e sono ugualmente di buona qualità.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Sono conscio del fatto che non è vero che “Italiano è buono (a prescindere)”. A parità di qualità io cerco di comprare italiano, per supportare i produttori nazionali, tanto più se territoriali. Ovviamente per le banane non è possibile, ma per i frutti di bosco si, sia trentini sia lombardi, e se non sono disponibili non li acquisto. L’olio 100% italiano lo trovo, ma costa di più, tuttavia con il consumo di 1 bottiglia al mese in media, posso permettermi di pagare qualche € in più. La bresaola IGP si trova con carne 100% italiana e talvolta pure bio. Per il prezzo vale il discorso dell’olio.
Non sono d’accordo con alcune parti dell’articolo.
Esistono molti marchi di latte a lunga conservazione 100% italiano, tipo il latte brio a livello nazionale. Inoltre costano meno di marche più blasonate che costano di più, ma usano latte UE.
Qualche mese fa era uscito un articolo, non mi ricordo se vostro o di altri, che parlava di come molte piantagioni di barbabietola da zucchero stavano scomparendo in Italia perché in paesi come Francia o Germania costava meno produrlo e ne producevano molto.
L’olio d’oliva secondo mie stime personali basterebbe e avanzerebbe per il fabbisogno nazionale, ma viene importato per una questione di costo.
I Legumi condivido, si salvano solo i ceci che sono abbastanza coltivati su suolo italiano
Condivido l’articolo.
Oltretutto il nostro decantato export commerciale alimentare vive di surplus, esportiamo quello che non possiamo consumare in Italia.
Il mercato del Parmigiano, Prosciutto di Parma, Prosecco etc etc solo di vendite interne non sopravviverebbe.
Bravo Roberto, fai bene a chiarire le cose perché sul made in Italy ci sono troppi equivoci e si raccontano troppe storielle
L’articolo è assolutamente condivisibile e centra perfettamente il problema. Non tutto quello che è italiano è di elevata qualità a prescindere. Ho lavorato in campo sanitario come ispettore pubblico presso stabilimenti per la produzione alimentare destinata anche all’export. Purtroppo, a parte alcuni prodotti DOP nei quali la materia prima è assolutamente di origine italiana, per molti altri prodotti questo non accade anche per demerito di una politica scellerata che ha portato l’agricoltura italiana a sopravvivere a stento, sia per le produzioni animali che vegetali. Vivo in una zona collinare della provincia di Parma e a stento tirano avanti le aziende agricole che producono latte per il Parmigiano Reggiano. Per il resto vedo terreni spesso incolti o coltivati in modo marginale, gli stessi che fino a due/tre decenni addietro erano produttivi e curati. Magra consolazione vedere l’impegno di qualche produttore locale che vende poi i suoi prodotti direttamente, ma se non si agirà in maniera strutturale sul comparto agricolo, presto mancherà la materia prima per i prodotti DOP più prestigiosi.
Buongiorno,
innanzi tutto occorre sgombrare il campo da 2 questioni: 1. Non è possibile che tutta la popolazione italiana mangi alimenti prodotti in Italia, perché le superfici coltivabili in rapporto alla popolazione sono limitate, una parte sono destinate a prodotti per l’esportazione o non alimentari (ad es. energetico, tessile, cosmetico, oli industriali, ecc.). In definitiva l’Italia è deficitaria per la produzione di molti alimenti rispetto al consumo, quindi chi dice di mangiare solo alimenti italiani o non è consapevole di quello che sta mangiando, o se è molto attento e informato, sta “sottraendo” alimenti italiani a qualche altro consumatore, per cui avrà una percentuale di alimentazione italiana superiore alla media, e l’altro una percentuale inferiore. Inoltre non si prende mai in considerazione che l’Italia è carente, oltre che di terreni coltivabili e di alimenti, anche di materie prime. Quindi per la produzione agricola vengono comunque impiegate ingenti risorse provenienti da altre parti del mondo: combustibili fossili e metalli per trattori e macchinari agricoli, sostanze chimiche per fertilizzanti e fitofarmaci, per fare solo alcuni esempi. 2 Toglietevi dalla testa che le materie prime alimentari ottenute in Italia siano migliori a prescindere. I prodotti agricoli risentono dell’andamento climatico, per esempio quest’anno le piogge nel Nord Italia in prossimità della raccolta del grano causeranno perdite di produzione e grani carenti in proteine e ad alto rischio di micotossine. Quindi l’industria che lavora i cereali deve scegliere di fornire ai clienti/consumatori alimenti scadenti o ricercare forniture integrative in altre parti del mondo. Inoltre, non è affatto semplice e immediato per chi produce alimenti trasformati e composti da tanti ingredienti (immaginate ad es. un biscotto), modificare continuamente l’etichettatura ogni volta che cambia l’origine di un ingrediente, come tanti semplicioni sembrano pensare. Detto questo, l’unico settore che attualmente prevede l’indicazione obbligatoria dell’origine della materia prima per tutti i prodotti è il biologico. Quindi, chi pensa che sia positivo nutrirsi esclusivamente o quasi di alimenti prodotti in Italia, dovrebbe: 1. affidarsi ai prodotti freschi e monoingredienti per i quali è prevista l’indicazione obbligatoria dell’origine, come ortofutta fresca e carni fresche. 2. Scegliere prodotti biologici che prevedono l’indicazione in etichetta dell’origine degli ingredienti. 3. Affidarsi a produttori locali, sapendo che non possono avere una produzione infinita. 4. Essere preparato a rinunciare ad una serie di alimenti che non sono prodotti in quantità sufficiente in Italia, e forse a saltare i pasti 2-3 giorni a settimana, specialmente in seguito ad annate sfavorevoli per un determinato prodotto, che però negli ultimi anni si sono intensificate a causa dei cambiamenti climatici che rendono più frequenti gli eventi climatici “anomali”, e degli andamenti economici dei mercati che spesso non rendono neppure conveniente raccogliere il prodotto anche se è presente. Per chi conosce il settore ad esempio sono anni che i prezzi di vendita delle pesche italiane non coprono i costi di raccolta, per cui i frutteti vengono abbattuti, abbassando ulteriormente la produzione, finché magari un consumatore si sveglia e scrive al Fatto Alimentare: “come mai non si trovano più pesche italiane al supermercato?”