Giorgio Palù docente emerito di microbiologia e virologia dell’università di Padova è stato intervistato per dal magazine online dell’Università di Padova Il Bo Live sul problema delle persone che devono fare il test alla ricerca del coronavirus SARS-CoV-2. Palù è convinto della necessità di monitorare e proteggere il personale sanitario e le categorie a rischio. Mentre la scelta di eseguire tamponi a tappeto non risolverebbe il problema. L’altra considerazione importante riguarda situazione in Lombardia che secondo il professore si è diffusa così velocemente perché ha un’origine ospedaliera. Vi proponiamo l’intervista realizzata da Francesco Suman il 20 marzo.
Cosa ne pensa della strategia annunciata in Veneto di aumentare il numero di tamponi giornalieri ed estenderli agli asintomatici?
Al 19 di marzo il Veneto ha fatto quasi 45.000 tamponi, secondo solo alla Lombardia che ne ha fatti più di 52.000, che però ha il doppio degli abitanti, 10 milioni. Le linee guida da seguire sono quelle dell’Oms e si trovano sul sito Ecdc: i tamponi vanno fatti ai sintomatici e ai contatti di chi è risultato positivo al test. Si è detto che l’aumento dei tamponi somiglia alla strategia adottata in Corea del Sud.
In Corea ci sono stati due focolai con epicentro ben definito, sono stati ricostruiti i contatti dei primi pazienti e da lì si è partiti per effettuare 300.000 tamponi. Così i Coreani hanno controllato la diffusione del contagio e stabilito un nesso reale tra positività al test e letalità del virus, che si è attestata al 0,9%-1%. Ad oggi ci sono 91 morti in Corea del Sud su meno di 9000 contagiati. Anche in Cina hanno condotto un’analisi massiva nella provincia di Guangdong, una provincia apparentemente non in contatto con il focolaio di Wuhan, trovando una positività dello 0.01%, pochissimo.
È utile fate test a tappeto sull’intera popolazione?
La diagnostica applicata a tappeto sulla popolazione sarebbe un approccio poco utile sul piano della riduzione del contagio. Fare tanti test serve quando si ha un focolaio ben preciso, non infezioni sporadiche. Abbiamo già superato quella fase dell’epidemia. Il virus è già diffuso nella popolazione: quando i buoi sono scappati dalla stalla è inutile chiudere la stalla. Semmai dovremmo insistere con misure di isolamento più drastiche e con la chiusura ulteriore di attività pubbliche (trasporti, riunioni etc.). Fare più tamponi agli asintomatici indiscriminatamente adesso non serve ed è scientificamente poco giustificabile anche per la natura stessa del test molecolare applicato al tampone, il cui potere diagnostico dipende strettamente dalla fase dell’infezione (lo stesso soggetto può essere trovato un giorno negativo e l’altro positivo).
Cosa voleva dire allora il direttore dell’OMS quando ha dichiarato che bisogna fare test, test, test?
Si rivolgeva a chi non li fa o ne fa pochi! Ci sono interi Paesi che non adottano ancora adeguate misure diagnostiche dove il contagio è in fase di rapida ascesa. Come sostengo da tempo, questa è un’infezione nosocomiale (il virus si diffonde bene negli ospedali) anche la SARS si comportava così. Un piccolo indizio emerge dal fatto che sono stati trasferiti pazienti positivi dal piccolo ospedale di Lodi a quello di Bergamo e successivamente abbiamo avuto un aumento delle infezioni e delle morti nella provincia bergamasca. In Lombardia ci sono più persone infettate perché il tasso di ricoveri è del 60%, rispetto ad una casistica mondiale del 15% e ad un tasso di ricoveri del 20% nel Veneto.
I dati ci dicono poi che il 6% dei ricoverati va in rianimazione, mentre noi su scala nazionale abbiamo il 10%. Un ospedale pieno di pazienti positivi al virus ricrea il modello di un melting pot, un calderone. Si ricrea una situazione come sulla nave da crocera Diamond Princess, dove le cabine strette e i sistemi di aerazione sono comuni.
Un recente lavoro sperimentale (pubblicato sul New England Journal of Medicine) mostra che in una piccola cubatura aerea l’emivita del virus è di un’ora circa, condizione sufficiente, in un luogo isolato, perché il virus si possa trasmettere da una persona all’altra. I tamponi andrebbero perciò eseguiti in primis al personale sanitario, che lavora negli ospedali, nelle case di ricovero, in comunità, ai tecnici di radiologia, a chi è necessariamente in contatto con la gente perché svolge un ufficio pubblico (poliziotti, carabinieri, responsabili di attività indispensabili….) . A questi dovremmo fare i test con priorità per proteggere i più gracili ed esposti (pazienti immunodepressi, anziani) non a tappeto per trovare genericamente l’asintomatico positivo.
Perché la Lombardia ha ospedalizzato così tanti pazienti?
Credo perché ogni minuto si parla del coronavirus sui media, in una sorta di contagiosa isteria comunicativa; la Lombardia, oggetto inizialmente di critiche come modello di sanità di eccellenza, ha voluto dimostrare la sua efficienza puntando sui ricoveri. Il Piemonte la sta superando con un tasso di ricoveri di circa l’80%. La misura migliore invece è l’isolamento fiduciario. All’inizio è stato applicato l’isolamento con quarantena solo alle prime zone rosse, cioè ai comuni del lodigiano e a Vo’. Poi si è esteso a livello provinciale, regionale e solo dopo una certa esitazione al centro-sud.
Ritengo che saranno proprio queste popolazioni a beneficiarne di più se verranno rispettate le disposizioni previste dal decreto 11/3/2020, essendo queste tanto più efficaci quanto più celermente introdotte ed applicate dove l’epidemia si presenta ancora con casi sporadici. A tale proposito, da una statistica locale, sembra che in Sardegna, da quando hanno applicato le misure isolamento, la curva che indica il tasso di nuovi casi incidenti sia in regresso.
Quindi i tamponi andrebbero fatti, non genericamente a tutti gli asintomatici ma solo su determinate categorie?
Ormai l’Italia ha più morti della Cina e siamo quelli che hanno eseguito più tamponi in Europa. In Corea del Sud pare addirittura che l’infezione stia ripartendo, a distanza dei due focolai principali, nonostante lo sforzo diagnostico messo in atto. Questo è un virus subdolo, molto contagioso per l’uomo che necessita di misure drastiche sul tipo cinese. Credo che anche da noi ci si sia ormai resi conto che eseguire tamponi a tappeto alla popolazione non risolverebbe il problema dal punto di vista clinico e igienico-sanitario. Servirebbe piuttosto uno studio di sieroprevalenza su diversi strati di popolazione, l’unica indagine capaci di darci informazioni precise sulla vera diffusione del virus e quindi sui veri tassi di morbosità e letalità.
Come ho già più volte pubblicamente sostenuto e richiamato anche sopra, andrebbero fatti tamponi (oltre ai sintomatici e ai contatti dei casi positivi) con priorità a determinate categorie, quelle più a rischio di infettarsi e di trasmettere l’infezione ai soggetti più gracili ed esposti. La letalità è molto elevata negli over 70 e over 80, oltre il 90%-95%. Bisogna quindi monitorare e proteggere queste categorie di soggetti: gli anziani ricoverati nelle case di riposo, gli immunodepressi, i malati oncologici, i bambini leucemici, i pazienti sottoposti a chemioterapie, controllando con i test tutto il personale sanitario che entra in contatto con loro ed il personale che mantiene la funzionalità di strutture indispensabili che non possiamo chiudere.
Intervista realizzata da Francesco Suman il 20 marzo 2020 e pubblicata sul sito del magazine online dell’Università di Padova Il Bo Live.
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24