Comportandosi in modo simile a quanto fatto per decenni dai giganti del tabacco, la Coca-Cola ha messo in atto diverse pratiche scorrette per evitare il più possibile che venissero resi noti i risultati che associavano il consumo della celebre bevanda a effetti negativi sulla salute, violando apertamente gli impegni che essa stessa aveva assunto in merito alla trasparenza e all’indipendenza delle ricerche che finanziava anche solo in parte. È questo il quadro impietoso che esce da un grande studio reso possibile grazie a leggi quali il Freedom of Information Act statunitense e le analoghe norme di Gran Bretagna, Australia, Danimarca e Canada.
Lo studio è stato condotto da ricercatori delle Università di Cambridge (Gran Bretagna) e Londra (London School of Hygiene and Tropical Medicine) insieme alla Bocconi di Milano e a US Right to Know (associazione statunitense che si batte per la trasparenza verso i consumatori) che hanno analizzato oltre 87.000 pagine di documenti ed email relative ai rapporti tra il colosso di Atlanta e numerosi centri di ricerca sparsi per il mondo.
Il risultato, pubblicato sul Journal of Public Health Policy è stato impietoso: tutti e quattro i principali enunciati contenuti nelle dichiarazioni della Coca-Cola sulla trasparenza sono stati sistematicamente violati, e in particolare:
1. I ricercatori possiedono il controllo totale sul disegno, l’esecuzione, l’analisi e l’interpretazione delle ricerche.
Questo non sarebbe affatto vero soprattutto perché l’azienda avrebbe più volte posto, tra le pieghe dei contratti, una condizione fatale, e cioè l’obbligo, per i ricercatori, di mostrare all’azienda prima che a chiunque altro i risultati ottenuti, e si sarebbe riservata sempre la possibilità di fermare lo studio e/o di non rendere noti i risultati, in aperta violazione ai principi più elementari della libertà di ricerca. In altre parole, il cosiddetto sostegno incondizionato non sarebbe affatto stato tale. E ciò spiegherebbe anche come mai, in tutti questi anni, la maggior parte degli studi pubblicati abbia affrontato soprattutto i temi dell’attività fisica o del metabolismo, più che le relazioni tra bibite dolci e peso. Tra questi contratti ve ne sono anche cinque stipulati con quattro atenei nordamericani, ovvero le università della Louisiana, della Carolina del Sud, quella di Washington e quella di Toronto.
Inoltre, tra i documenti analizzati vi sono anche molte email di ricercatori che lamentano lo stretto controllo dell’azienda sull’andamento dei lavori ricerche, parecchio limitate per essere, appunto, non condizionate. Qualcuno ha commentato che i contratti erano un esercizio legale e di pubbliche relazioni più che un accordo tra due parti.
2. I ricercatori sono incoraggiati a pubblicare i propri dati e la Coca-Cola non ha il diritto di impedire che ciò accada.
Anche in questo caso, le clausole sbugiardano le regole messe in bella mostra negli enunciati ufficiali, perché anche se è vero che in tutti i contratti l’azienda ha scritto sempre di voler sostenere la pubblicazione dei risultati, nei cavilli ha molto spesso inserito la facoltà di revoca dei fondi, a sua discrezione. Un modo molto chiaro per intimidire i ricercatori e convincerli dell’opportunità (economica) di rendere noti solo alcuni dati, e non altri.
3. I ricercatori devono rendere note le fonti di finanziamento in tutte le pubblicazioni e le presentazioni pubbliche dei dati.
Nei contratti analizzati gli autori hanno trovato numerose diverse scappatoie per venir meno a questa norma, che di fatto lasciano al potere discrezionale di entrambe le parti (i centri di ricerca e l’azienda) la facoltà di rendere noti o meno tutti i possibili finanziamenti nelle loro molteplici forme.
4. La Coca-Cola non condiziona l’erogazione di fondi all’esito dello studio.
In teoria è così, ma nella pratica la situazione è meno ideale. I documenti analizzati, così come altri studi effettuati negli ultimi anni, hanno dimostrato che i fondi sono andati soprattutto a studi che hanno avuto esiti quantomeno non negativi e che l’azienda ha quasi sempre avuto il potere di azzerare lo studio senza motivo, qualora lo ritenesse necessario, mantenendone la proprietà intellettuale e quindi impedendo a chiunque di renderne nota anche solo una parte
In passato analisi simili a questa hanno avuto effetti significativi quali la rottura di alcuni contratti stipulati da università americane e un generale cambiamento di atteggiamento dell’opinione pubblica, che ha perso sempre più fiducia.
Oggi gli autori chiedono l’adozione di una norma universale, che le riviste scientifiche dovrebbero adottare subito, anche in assenza di specifiche normative di legge: per cui ogni contratto sia immediatamente e totalmente reso pubblico, cavilli e clausole compresi, in modo da consentire all’opinione pubblica di avere un’idea chiara sull’affidabilità dei risultati e sull’onestà intellettuale di chi li ottiene e pubblica. Chiedono insomma che la responsabilità sociale d’azienda sia qualcosa di più che una mera formulazione sui moduli.
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Giornalista scientifica
E in Italia? Lo studio LIZ (Liquidi e Zuccheri nella popolazione italiana) (http://bit.ly/2Heq5Zc) è stato realizzato grazie al contributo incondizionato di Coca-Cola Foundation a Fondazione SIMG (Società Italiana di Medicina Generale). La fondazione SIMG ONLUS in precedenza aveva già ricevuto dalla Coca Cola rispettivamente 357.000 euro nel 2011 e 340.000 euro nel 2012 per il progetto Calorie balance (http://bit.ly/2vPu3Rh). Lo studio Liz è stato condotto anche dalla NFI Nutrition Foundation of Italy che è finanziata ogni anno dalla Coca Cola (http://bit.ly/2HgngFv).
Quindi in pratica La Coca Cola ha dato soldi rispettivamente a 1) NFI, 2) alla fondazione SIMG per progetto Calorie balance e 3) alla fondazione SIMG ONLUS per la realizzazione effettiva dello studio LIZ.
La cosa interessante è che il principale autore dello studio ha dichiarato che non hanno alcun conflitto di interessi: “On behalf of all authors, the corresponding author states that there is no conflict of interest”.
Lo scandalo sta nel fatto che ricercatori e istituzioni accettino di buon grado di stipulare convenzioni in cui compare sistematicamente un articolo che riconosce al committente il diritto di autorizzare o meno la pubblicazione dei risultati della ricerca finanziata, anche quando commissioni di organi consultivi ufficiali delle istituzioni si sono pronunciate contro l’accettazione di convenzioni con tale condizionamento. Parlo a ragion veduta essendo stato membro del Comitato Scientifico dell’Istituto Superiore di Sanità e partecipante alla commissione per la valutazione delle convenzioni.