Lo spreco di pesce è una questione ambientale, economica e alimentare. Il sistema pesca in perdita se non fosse per i sussidi pubblici
Lo spreco di pesce è una questione ambientale, economica e alimentare. Il sistema pesca in perdita se non fosse per i sussidi pubblici
Agnese Codignola 6 Giugno 2018A metterli in fila, i numeri dello spreco di pesce conseguente all’adozione dei sistemi industriali di pesca negli ultimi 65 anni, fanno impressione. Su un totale di circa 5,9 miliardi di tonnellate di pescato in tutto il mondo, 437 milioni di tonnellate di pesce in gran parte non rispondente ai canoni imposti dal mercato, ma quasi sempre commestibili e anzi, spesso dall’elevato valore nutrizionale, sono stati gettati in mare dopo una pesca nelle reti a strascico di superficie o di profondità, dopo l’uso di ami sospesi su lunghe file di lenze o peggio, con l’esplosivo, per un controvalore di 560 miliardi di dollari.
A fare i conti hanno pensato i ricercatori di Sea Around Us, iniziativa patrocinata dall’Institute for the Oceans and Fisheries della Columbia Britannica, che hanno pubblicato su Fisheries Research quanto ottenuto dopo aver esaminato i dati ufficiali relativi alla pesca industriale e non, di tutti i paesi che si affacciano sul mare e averli incrociati con quelli dello spreco (ufficiale e non), con quelli del tipo di pesce, con quelli del settore di pesca e con quelli di ognuno dei 65 anni compresi tra il 1950 e il 2014.
Il risultato, riassunto anche in un documentatissimo filmato, è impressionante: in questi anni, via via che i sistemi industriali si diffondevano sempre di più (oggi rappresentano il 77% delle flotte, anche se pescano poco più di un terzo del totale del pescato: un sistema davvero poco efficiente), si ributtava in mare una quantità crescente di pesce, che nel complesso ha raggiunto i 750 milioni di tonnellate, il 60% dei quali provenienti appunto da flotte industriali da sempre sostenute da sussidi pubblici (per un totale di non meno di 35 miliardi di dollari erogati). Per contro, i pescherecci locali hanno gettato solo (si fa per dire) il 23% del pescato.
Se il pesce buttato fosse stato riportato a riva e utilizzato, oltre a sfamare migliaia di persone e a contribuire a tenere vive le piccole flotte locali, avrebbe reso appunto 560 miliardi di dollari e, per limitarsi alle specie più pregiate come le aragoste e i crostacei in generale, non meno di 200 miliardi di dollari.
È evidente che un sistema organizzato in questo modo non regge, quando i banchi di pesce sono sempre più poveri, talvolta estinti, e quando la preoccupazione per lo stato generale del mare cresce di mese in mese. Inoltre, come accade per gli allevamenti intensivi, il sistema è fortemente sbilanciato verso le perdite, non produce guadagni netti perché costa molto di più di quello che rende, e sarebbe quindi già stato modificato, se non intervenissero i sussidi a tenerlo artificiosamente in vita.
© Riproduzione riservata. Disegno di Sea Around Us.
[sostieni]
Giornalista scientifica
leggere questa cosa non mi stupisce, tuttavia mi fa “arrabbiare”: “La mancata commercializzazione è dovuta al fatto che certe categorie, pur essendo commestibili e avendo un elevato contenuto nutrizionale, non rispondono ai canoni imposti dal mercato.”
La scorsa settimana da Cortilia ho comprato gli asparagi “brutti ma buoni” ovvero che non rispettavano i canoni del mercato e quindi ad un prezzo molto basso; in ogni caso brutti non erano, ma buoni sicuramente.
Esatto.
Colpa del “mercato”, ovvero del cittadino medio, che da tempo non sa da che parte è girato, ed è vittima dei vari marketing/mode…
Purtroppo quando la qualità è solamente un parametro estetico, come ci siamo/hanno abituati a credere, queste sono le dirette conseguenze.
La qualità nutrizionale e spesso anche organolettica, è altra cosa da quello che il mercato ci offre come alimento di qualità, ma finché seguiremo le sirene pubblicitarie e gli esperti ipertecnologizzati delle preparazioni, allevamenti e coltivazioni di cibo ed alimenti, questo è il risultato che ci meritiamo: un bel vedere di un contenuto standardizzato di medio/bassa qualità generale, ma ad alto costo ed impatto ambientale.
Che il sistema pesca in acqua salata non funzioni è una cosa denunciata da anni. Il discorso del rigettato è una vergogna mondiale e non si fa nulla per impediirlo. Ci sono carenze strutturali tutte nostre, nella nostra italietta che si distingue sempre per furberie. Ma il vero problema è che, anche qua come ovunque, manca un efficace sistema politico di controllo competente in grado di risolvere il problema.
Senza parlare poi delle acque interne, risorsa incredibile anche da un punto di vista economico. Soldi per potenziare la pesca interna non ce ne sono mai stati un granchè, salvo nelle regioni a satatuto speciale cone il Trentino che ha fatto della pesca alla trota una risorsa importante con un indotto importante. Per il resto la desolazione più assoluta. Purtroppo, e mi ripeto, siamo alla mercè di gente totalmente incompetente che se ne frega….
Lavoro da anni nel settore ittico di larga scala, sono anni che mi batto contro lo spreco e per formare persone su come evitarlo. Lo spreco di pesce insiste ad ogni livello della filiera ittica, addirittura con pseudoprofessionisti che rifiutano partite di pesce per una virgola (non è una metafora) in più o in meno nell’etichetta. Considerate che circa il 66% di pesce lo importiamo. Quello pescato, che risponde ai canoni imposti (ma da chi mi chiedo?) e che giunge in Italia, già deriva da un prelievo con una quota di scarto (distruzione gratuita dei mari), e magari si fa mezza Europa (gasolio inquinamento spreco energetico) se non mezzo mondo, e qui lo si butta per fesserie. Manca una coscienza comune globale, siamo tutti sulla stessa terra, la stessa. Lo spreco ittico è una cosa ignobile fuori da ogni logica. Ps: nella vignetta dell’articolo la pesca sub non può per definizione rientrare in quella che genera spreco perché è la sola davvero selettiva (si vede il pesce prima di catturarlo) ed impatta sul Pescato globale per uno 0,0000000..1%. NB: i sistemi di pesca aggressivi non solo hanno impatto diretto con il prelievo di specie senza mercato ma spesso (strascico x es) distruggono pure l’habitat abitativo e riproduttivo per i pochi superstiti. Le cose forse le possiamo cambiare noi, ma non basta optare per pesce con bollini pseudofasulli di sostenibilità, o di amici del mare, (adesso si fa quasi fatica a trovare chi non li ha!!!pensa te, tutti virtuosi!! ) ma solo scegliendo prodotti “poveri” e forse bruttini ma mangiabilissimi e di certo insegnando ai nostri figli la cultura del rispetto.
Concordo pienamente e mi batto da sempre per un consumo più intelligente, più nutriente, più nostro (fresco ed autoctono), ma soprattutto più artigianale e diffuso, visto che siamo una penisola circondata dal mare.
I veri distruttori del mercato e del mare sono i principali importatori di grosse partite di pesce standardizzato e pescato a strascico con tutti gli scarti relativi citati, che hanno diseducato tutti, commercianti e consumatori in primis.
D’accordo con quanto sopra, poi non si contano i casi di intossicazioni da istamina perché le condizioni di mantenimento, per ridurre determinati costi, non vengono rispettate.