La selezione di specie animali destinate all’alimentazione umana resistenti alle infezioni può essere una soluzione, quando sono minacciate da virus o microrganismi di altro tipo. Un esempio è quello della tilapia del Nilo (Oreochromis niloticus), soprattutto in un momento in cui parte della comunità scientifica afferma che bisogna fare tesoro di quanto sta accadendo con COVID-19, per predisporre misure in grado di ridurre rischi analoghi in futuro.
Negli ultimi anni, questo pesce è diventato fondamentale per le acquacolture di tutto il mondo, soprattutto nei paesi a sviluppo medio o basso, perché è una fonte di proteine accessibile a costi non eccessivi. Oggi i sei milioni di tonnellate di pesce allevati in 120 paesi alimentano un mercato di circa dieci miliardi di dollari, secondo solo a quello della carpa.
Tuttavia, come racconta Science in un resoconto, dieci anni fa gli allevamenti israeliani hanno dovuto fare i conti con una malattia terribile e fino ad allora sconosciuta. I pesci morivano con vistose emorragie, perdita di scaglie, decolorazione, comportamenti anomali, ulcere, gonfiori addominali e protrusione degli occhi, e in alcune vasche la mortalità era vicina al 100%.
Nel 2014 si è scoperto che l’agente infettivo era un virus, denominato in seguito proprio virus della tilapia di lago o TiLV, ormai diffuso in 16 i paesi. Da allora non sono stati trovati né test ufficialmente riconosciuti, né un vaccino né una cura per l’infezione.
Per questo i ricercatori del Roslin Institute dell’Università di Edimburgo (il centro della prima pecora clonata, Dolly) hanno iniziato a collaborare insieme quelli dell’ente di ricerca no profit WorldFish. In Malesia, quest’ultimo aveva un allevamento di tilapie del tipo GIFT o Genetically Improved Farmed Tilapia, selezionate per crescere in fretta e non risentire troppo delle condizioni ambientali, che nel 2018 è stato colpito dal virus TiLV.
Hanno così capito che alcune famiglie mostravano una naturale resistenza al virus, e hanno iniziato a studiarle dl punto di vista genetico. Lo studio ha interessato oltre 1.820 pesci – si legge nello studio poi pubblicato su Aquacolture – appartenenti a 124 famiglie, reperite in vari paesi, e alla fine hanno individuato le caratteristiche genetiche associate alla resistenza all’infezione, che peraltro non influenzano in alcun modo la crescita o le dimensioni. Inoltre hanno capito che i pesci più grandi resistono bene quanto quelli più piccoli.
Ora, spiegano gli autori, ci vorranno anni per trasferire queste informazioni agli allevatori, per far sì che scelgano specie resistenti, o che le selezionino con l’aiuto dei genetisti locali (uno scenario ancora irrealizzabile in molti paesi). In questo modo si potrà migliorare la produzione senza ricorrere a farmaci o rimedi più drastici o invasivi.
Nel frattempo diversi centri di ricerca pubblici e privati stanno continuando a cercare un vaccino che tuttavia, quand’anche fosse messo a punto, probabilmente non sarebbe accessibile a tutti, e avrebbe costi elevati.
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Giornalista scientifica