L’etichetta dei filetti di tonno “lavorati a mano” ma in Thailandia, a dispetto dell’italianissimo marchio Rio Mare, continua a raccogliere commenti da parte dei lettori de Il Fatto Alimentare. L’opinione più autorevole e strutturata ci é giunta da Roberta Bervini e Claudio Biglia, dirigente veterinario, della ASL 1 di Torino nonché docente universitario. La risposta conferma i dubbi emersi da più parti.
“Tra le informazioni in disponibilità del consumatore occorre, nel mare magnum di norme vigenti, individuare quali siano quelle previste (perché obbligatorie) per le conserve ittiche. La luce ci è fornita dal combinato disposto del reg. CEE 1536/92 (norme per la commercializzazione di conserve di tonno) e dalla circolare MIPAF 23 marzo 2005 interpretativa del reg.CE 2065/01.
La norma specialistica per le conserve di tonno impone “per garantire un’ampia trasparenza del mercato” che i prodotti siano preparati con pesci di specie ben definite (elencate in uno specifico allegato) e che la denominazione di vendita riporti il tipo di pesce impiegato e la tipologia di presentazione commerciale. La circolare interpretativa esclude peraltro dal campo di applicazione del reg.CEE 2065/01 i prodotti ittici totalmente trasformati, come nel caso in esame
Il quesito del lettore è composto: da un lato vorrebbe conoscere l’origine della materia prima, dall’altro chi sia il produttore della conserva ittica.
– In ordine al primo lecito quesito occorre rilevare che l’informazione fornita al consumatore sul punto origine è coerente. Infatti compare la nazione Thailandia,
– Per quanto attiene invece al secondo, le molteplici informazioni riportate sull’etichetta possono mettere in dubbio il consumatore su chi sia effettivamente il produttore (o meglio la sede di produzione).
Non è giustificabile tale approccio neppure in lettura, per analogia, della normativa riferita alla etichettatura delle carni bovine (reg. CE 1760/02). In tale norma, allorché luogo di nascita del bovino, luogo di allevamento e luogo di macellazione coincidano è possibile indicare come unica “Origine” il nome dello Stato membro o del paese terzo. Ma si tratta di una norma specifica, riferita ad altro settore, che tra l’altro riassume in un’unica dicitura i due diversi concetti di “origine” e “provenienza”, la cui distinzione è chiarita dalla giurisprudenza italiana sull’art.515 del nostro codice penale.
Bene farebbe quindi la società produttrice ad integrare la propria etichetta con i due termini “origine – provenienza” che nel caso in specie, per diretta affermazione dell’ufficio stampa Bolton Alimentari, coinciderebbero geograficamente con la Thailandia.
Per tutte le altre informazioni sulla tracciabilità è soddisfacente quanto operato, in regime di trasparenza, dalla società produttrice, mediante le indicazioni estraibili dalla rete, attraverso la digitazione del codice di produzione. Ogni altra parola potrebbe ingenerare infruttuose polemiche.”
Claudio Biglia e Roberta Bervini, ASL 1 Torino
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E’ interessante notare che senza più precisi “riferimenti” territoriali (a ben vedere, “psicologici” ed esasperati rispetti ai prodotti “di terra”) i prodotti della pesca provochino l’incertezza dei consumatori.
Proprio in Europa si sta discutendo di questi temi, e della rilevanza della differenza tra luogo di origine e posto di produzione con risultati che saranno pubblicati nello studio di impatto della CE entro dicembre 2013, in vista dell’obbligo di indicare origine-luogo di produzione per carni ovicaprine, suine e di volatili (entro dic 2014) e della origine della carne quando usata come ingrediente (studio fattibilità entro dicembre 2013)- Credo che dopo l’horsegate, con 7-8 passaggi trasformativi, tale aspetto sia centrale. In ogni caso, e come fanno giustamente rilevare gli autori, se il reg. 1760 ha reso giuridicamente importante la distinzione tra luogo di nascita, allevamento e macellazione, perchè non estenderlo alle altre carni/pproduzioni animali?