Prosciuttopoli: sequestrate e smarchiate 300 mila cosce di prosciutto di Parma e San Daniele per un valore di 90 milioni! La frode iniziata nel 2014
Prosciuttopoli: sequestrate e smarchiate 300 mila cosce di prosciutto di Parma e San Daniele per un valore di 90 milioni! La frode iniziata nel 2014
Roberto La Pira 3 Maggio 2018I numeri dello scandalo del prosciutto crudo di Parma e di San Daniele sono da paura: 300 mila prosciutti sequestrati e 140 allevamenti di maiali posti sotto inchiesta della Procura di Torino. C’è di più, i due istituti di certificazione che devono controllare il rispetto dei disciplinari (Istituto Parma Qualità e Ifcq Certificazioni) sono stati commissariati per sei mesi dal Ministero delle politiche agricole per gravi irregolarità. L’aspetto curioso è che le notizie diffuse dai media su questa vicenda sono state pochissime e sono apparse quasi tutte sulla stampa locale. La stessa Coldiretti, abituata a diffondere almeno tre comunicati al giorno per segnalare anche le difficili condizioni meteo, si è dimenticata di questa storia. Eppure la produzione di prosciutto di Parma e San Daniele, dopo le indagini avviate un anno fa, sta attraversando una crisi pesante. La causa è da ricercare nella vendita di cosce provenienti da maiali nati con il seme di Duroc danese, una razza diversa da quelle previste dai consorzi . La questione è molto seria, visto che la procura di Torino ha sequestrato 14 mesi fa, in 140 aziende, oltre 300 mila cosce di maiale ( 220 mila destinate al prosciutto di Parma le altre al San Daniele) per un valore al consumo di circa 90 milioni di euro, pari a circa il 10 % della produzione nazionale.
L’accusa è di frode in commercio, aggravata per l’utilizzo di tipi genetici non ammessi dal Disciplinare dei consorzi. Alcune aziende implicate nello scandalo hanno ammesso l’uso di animali con una genetica non consentita riuscendo a dissequestrare i prodotti e a venderli come semplici prosciutti crudi. Altre hanno sostenuto di essere in regola e molti sono rimasti in silenzio. Per non avere controllato questo aspetto della filiera, il Ministero delle politiche agricole ha commissariato per sei mesi l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni. Stiamo parlando dei due enti incaricati di sovrintendere al rispetto non solo dei disciplinari dei prosciutti di Parma e di San Daniele, ma di quasi tutte le eccellenze agroalimentari italiane. L’elenco comprende oltre ai due prosciutti Dop, tre referenze per l’Istituto Parma Qualità (Prosciutto di Modena, Culatello di Zibello, Salame di Varzi), e 22 per l’Ifcq Certificazioni (Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop, Cinta Senese Dop, Stelvio Dop, Fiore Sardo Dop, Speck Alto Adige Igp, Agnello di Sardegna Igp, Kiwi Latina Igp, Pecorino Romano Dop, Pecorino sardo Dop, Valle d’Aosta Jambon de Bosses Dop, Valle d’Aosta Lard D’Arnard Dop, Prosciutto Toscano Dop, Prosciutto di Carpegna Dop, Salamini italiani alla cacciatora Dop, Salame Brianza Dop, Prosciutto di Sauris Igp, Mortadella Bologna Igp, Cotechino Modena Igp, Zampone Modena Igp, Salame Cremona Igp, Finocchiona Igp, Pitina Pnt).
Pochi hanno voglia di raccontare questa vicenda. Gli allevatori che hanno usato razze di suini a crescita veloce sapevano di usare razze non consentite dal disciplinare, ma lo hanno fatto in modo deliberato perché il sistema permetteva vantaggi economici significativi. I due enti certificatori, accreditati per controllare le fasi di allevamento e stagionatura (Istituto Parma Qualità e Ifcq Certificazioni), e commissariarti per sei mesi dal Ministero delle politiche agricole preferiscono non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Trattandosi però di una storia che va avanti dal 20014 e riguarda molti soggetti della filiera, è difficile giustificare tanta negligenza da parte dei controllori.
Anche la posizione dei Consorzi è complicata. Nessuno si è accorto che almeno 140 allevatori per incrementare i profitti, hanno venduto per anni centinaia di migliaia di cosce di maiale non adatte al tipo di stagionatura prevista. Il Consorzio del prosciutto di Parma di fronte allo scandalo si limita a dichiarare che “nessuna coscia dei maiali provenienti dagli allevamenti coinvolti è diventata né diventerà Prosciutto di Parma ed eventuali cosce in stagionatura sono state facilmente identificate e, se del caso, distolte dal circuito”.
Anche se in seguito dell’inchiesta della magistratura a centinaia di migliaia di prosciutti è stato tolto il marchio a fuoco impresso sulla cotenna, la vicenda lede pesantemente l’immagine del prodotto Dop. È vero che trattandosi di una frode commerciale non ci sono problemi per la salute dei consumatori, ma è altrettanto vero che lo scandalo è gravissimo dal momento che stiamo parlando delle eccellenze alimentari italiane. Sapere che le fettine di Parma e di San Daniele, vendute in busta nei supermercati a un prezzo variabile da 37 sino a 58 €/kg, provengono da razze non ammesse che non garantiscono un prodotto di qualità è molto imbarazzante.
Per rendersi conto della gravità della situazione, basta dire che il procuratore di Torino Vincenzo Pacileo, promotore delle indagini, ha accolto l’idea di Assosuini di convocare in procura una riunione tra le parti interessate (Ministero politiche agricole, Coldiretti, Consorzio del prosciutto di Parma, i due istituti di certificazione IPQ e IFCQ Certificazioni, Confagricoltura, Assica, Copagri e Cia) “per chiarire l’estensione del fenomeno illecito di fronte al paventato rischio di collasso del mercato del settore”. Secondo gli inquirenti, le frodi vanno avanti almeno dal 2014. Adesso ci sono buoni motivi per ritenere che da quando si è conclusa l’indagine nel febbraio 2017, il fenomeno sia esaurito o in via di esaurimento. Dello stesso parere è l’Icqrf del Ministero delle politiche agricole che dopo l’inchiesta di Torino ritiene ci sia stato un ritorno alla normalità. La cosa certa è che, oltre ai 300 mila prosciutti bloccati dall’inchiesta, in questi anni centinaia di migliaia di prosciutti di Parma e di San Daniele taroccati sono stati venduti a caro prezzo ai consumatori ignari della frode.
Secondo quanto è emerso dalle indagini l’introduzione in Italia del seme di verro Duroc danese per inseminare le scrofe è iniziata almeno quattro anni fa, e si è diffusa rapidamente coinvolgendo allevamenti situati in tutto il Nord Italia (dal Piemonte all’Emilia Romagna, dalla Lombardia al Trentino). È curioso ricordare come nello stesso periodo (2015), mentre 140 aziende agricole allevavano centinaia di migliaia di maiali nati e cresciuti in Italia per venderli in modo fraudolento ai salumifici dei prosciutti di Parma e San Daniele, Coldiretti si mobilitava al Brennero per denunciare l’importazione di cosce di maiale destinate a diventare prosciutti nei salumifici di Modena (cosa peraltro assolutamente legale non trattandosi di prodotti Dop). Se allora i media rilanciarono l’iniziativa con grande enfasi, adesso, di fronte a una frode che coinvolge le due filiere più importanti, bucano la notizia! Sui numeri degli allevamenti coinvolti c’è qualche divergenza. Secondo il Consorzio del prosciutto di Parma, i soggetti indagati (ovvero con cosce oggetto di sequestro), sono attualmente 40, mentre i prosciutti in fase di stagionatura posti sotto sequestro o distolti dal circuito ammonterebbero al 3% della produzione del Parma. Per il San Daniele non ci sono notizie, perché il consorzio non risponde.
I prosciutti italiani Dop sono considerati i migliori al mondo perché i disciplinari prevedono norme severe su tempi di allevamento, livelli di crescita, tipo di alimentazione e impronta genetica. Per questo motivo, se le scrofe vengono inseminate con un seme non riconosciuto, il reato è considerato gravissimo. Non si tratta di sfumature. Le razze per i due prosciutti Dop vengono macellati dopo un periodo minimo di 9 mesi, quando hanno raggiunto 160 kg (con una tolleranza del 10%). Trattandosi di animali a crescita lenta con uno sviluppo muscolare non esagerato, alla fine si ottiene un livello di grasso di copertura ottimale per la stagionatura e una carne con poca acqua. L’inseminazione con il seme di verri di Duroc danese è economicamente vantaggiosa perché i maiali arrivano ai 160 kg previsti dopo 8-8,5 mesi, e non dopo 9-10 come si registra con le tipiche razze di suino pesante ammesse dal disciplinare. Il vantaggio per gli allevatori è sin tropo evidente, meno mangime da somministrare ai maiali, migliore efficienza nella conversione alimentare e minor lavoro nella gestione degli animali. I problemi però si evidenziano nella fase di lavorazione dopo la macellazione. La crescita veloce degli animali determina una muscolatura poco matura, con un livello di grasso sottocutaneo e di copertura insufficiente, per cui a fine stagionatura il prosciutto non ha il sapore, la consistenza e l’aspetto tipico del prodotto Dop. In questa vicenda sono coinvolti anche i macelli e i prosciuttifici, che accettavano di buon grado il sistema perché la resa della carcassa era maggiore e i prosciutti più magri e con meno grasso risultavano anche più graditi dai consumatori attenti alla linea.
Uno dei motivi che ha favorito l’impiego di razze di maiali con un’impronta genetica “incompatibile” con le esigenze morfologiche e strutturali necessarie per ottenere prosciutti Dop è la poca chiarezza dei disciplinari. “I disciplinari – spiega Luisa Antonelli Volpelli, docente di Nutrizione e alimentazione animale all’Università di Modena e Reggio Emilia, che per anni ha fatto parte della Giunta d’appello di Ineq (ora Ifcq) – ammettono l’uso di tipi genetici che forniscono caratteristiche non incompatibili con i dettami del regolamento per la produzione del suino pesante italiano, in particolare per il grasso di copertura e lo sviluppo muscolare. Le regole vanno assolutamente rispettate, ma nel recente passato sono state disattese proprio dai controllori”. I consorzi fanno bene a prediligere la genetica italiana, ma ritenere tutte le nuove razze incompatibili con il prosciutto di San Daniele e di Parma senza apportare valide giustificazioni denota una visione restrittiva che potrebbe nascondere anche un conflitto di interesse, come ha sottolineato un parere redatto nel 2013 dall’Autorità garante della concorrenze e del mercato.
Detto ciò lo truffa dei prosciutti non trova alcuna giustificazione e ha assunto dimensioni tali da poter parlare di una Prosciuttopoli. La vicenda vede coinvolti allevatori, macelli, prosciuttifici e gli organismi di controllo che dovevano supervisionare le operazioni . C’è poi la “noncuranza” dei Consorzi che non avevano sentore delle furberie in atto. Il paradosso è che i prosciuttifici nel processo in corso a Torino si ritengono parte lesa, e chiedono i danni agli allevatori. Viene spontaneo chiedersi come facciano aziende che operano da 30 anni nel settore, a non accorgersi di acquistare cosce con poco grasso e una conformazione muscolare sospetta. Se così fosse bisognerebbe fare una riflessione sulle effettive capacità di prosciuttifici così ingenui da farsi abbindolare dagli allevatori. Il problema è serio e andrebbe affrontato senza accampare giustificazioni o scuse improbabili, come sembrano fare la maggior parte dei soggetti coinvolti. Questo comportamento inaccettabile è coperto dall’assordante silenzio dei media pronti a rilanciare le notizie-bufale sul grano canadese e sul pomodoro cinese, trascurando le “malefatte made in Italy”.
Forse siamo noi gli ingenui quando pensiamo che gli allevatori troppo furbi dovrebbero essere allontanati dalla filiera, che i laboratori di certificazioni dovrebbero fare meglio il loro mestiere ed essere sanzionati pesantemente, che i prosciuttifici distratti non esistono e che i consorzi dovrebbero capire quando le cose non funzionano prima dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Ma Prosciuttopoli 2018 interessa poco, perché sollevare uno scandalo sul prosciutto di Parma e San Daniele diventa una questione nazionale. La cosa importante è salvare l’immagine di una filiera che fattura qualche miliardo di euro e dimenticare i consumatori truffati (2 continua).
Per leggere la prima parte dell’inchiesta pubblicata il 16 aprile 2018 clicca qui.
Per leggere la terza parte dell’inchiesta pubblicata il 14 maggio 2018 clicca qui.
Per leggere la quarta parte dell’inchiesta pubblicata il 18 maggio 2018 clicca qui.
Fonte Immagini: Festival del Prosciutto di Parma, Consorzio del Prosciutto di Parma
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[sostieni]
Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Gent.Le Dott La Pira,
Il suo articolo è molto interessante, ben scritto e circostanziato, sarebbe stato molto bello ed interessante conoscere i nomi precisi delle aziende coinvolte nella truffa, questo avrebbe permesso a noi consumatori la possibilità di rifiutare i loro prodotti ora e nel futuro.
I nomi non si conoscono , bisogna aspettare il processo e la sentenza
Ma la domanda giusta dovrebbe essere: i nomi di chi? Perché, al di là di dover attendere una sentenza, non sono indagati né prosciuttifici né macelli. Quindi, per quello che si sa, sono indagati allevatori ed eventualmente di questi dovrebbe “essere fatto il nome”.
Faccio presente che una scrofaia che produce suinetti da ingrassare, generalmente fornisce diversi allevamenti da ingrasso. Questi ultimi sono fornitori di diversi macelli che a loro volta forniscono molti prosciuttifici.
Quindi, se si sapesse che l’allevatore “Mario Rossi” (che produce suinetti) è indagato, cosa può fare il consumatore, anche col nome in mano? Quali prosciutti di quali prosciuttifici non dovrebbe acquistare? Lo estenderebbe a tutti i prosciutti di quel prosciuttificio o solo alle cosce di Mario Rossi? E questo Mario Rossi potrà mai essere “riabilitato” dopo aver pagato la sua pena o dovrà smettere di allevare e cambiare mestiere? E che dire dei famosi IPQ e ICQRF?
Non voglio difendere nessuno. Queste persone avranno certamente i loro avvocati.
Noto che spesso in Italia funziona sempre bene il “forcaiolismo”. Punire i colpevoli e marchiarli con la lettera scarlatta, ora e per sempre. Amen. O almeno il tempo di scorrere le ultime notizie da qualche social network per poi scordarsi di tutto entro la prima settimana…
Io penso che nelle società minimamente organizzate sia bene che ognuno faccia il proprio mestiere e non quello degli altri.
Così è corretto che gli allevatori allevino animali certificati dandone prova e certificazioni veritiere non artefatte.
I trasformatori lavorino materie prime certificate, provenienti da allevamenti affidabili e controllati soprattutto da loro stessi direttamente, perché fidarsi è bene ma controllare è molto meglio. Se poi i prosciutti vengono diversi da come dovrebbero venire come previsto dal disciplinare, i casi sono due: il produttore non conosce il mestiere, oppure è in collaborazione/combutta con allevatori furbastri.
Gli enti certificatori devono controllare prima, durante e dopo le produzioni, per evitare che eventi tragici come questo, per l’affidabilità e l’immagine loro e di tutta la filiera, venga distrutta a danno di tutti e non solo dei furbastri, ma di tutti i prodotti di qualità italiani.
Compreso il mio orgoglio di essere un italiano DOC.
I giornalisti devono divulgare le notizie ed approfondire le dinamiche, per comprendere cosa è accaduto veramente e dove è possibile isolare i responsabili, per non fare di tutta l’erba un unico fascio indistinto, salvaguardando operatori innocenti che si sono comportati correttamente, anche se in questo caso specifico, sembra proprio che anche questi ultimi non potevano non sapere quali materie prime circolavano.
Mentre ed infine per conoscere i nomi dei coinvolti, visto l’andazzo generale riscontrato, temo che ci vorranno pagine intere per elencarli tutti. Ma ad indagini complete, estese ed approfondite per fare ordine e pulizia capillare in tutta la filiera.