Gentile redazione,
ho letto l’ articolo sul problema dei rifiuti di materiale plastico e vorrei esprimere un parere da “chimico”. I vari materiali bio compatibili saranno senza dubbio migliori, poiché non provocano inquinamento “visivo”, ma se rilasciati nell’ambiente, non si conoscono bene le modalità di decomposizione… si frammentano in oligopolimeri che, seppur di origine vegetale sonoe dannosi per l’ambiente che li assorbe. I sacchetti di plastica tradizionali, invece restano inerti se pur brutti da vedere e/o pericolosi per molte specie animali. Come sempre basterebbe un po’ di buon senso e civiltà per evitare il diffondersi di nuovi materiali prodigiosi che rischiano di rivelarsi più pericolosi di quello che immaginiamo.
Sara
Risponde Luca Foltran, esperto di packaging
Le plastiche biodegradabili per definizione sono suscettibili al processo che avviene quando i microrganismi presenti nell’ambiente (es. batteri, funghi, alghe) riconoscono la sostanza come cibo, dunque la consumano e la digeriscono (senza bisogno di additivi artificiali).
La biodegradazione comprende diversi passaggi che possono avvenire in sequenza o in parallelo, e include sempre il passaggio di mineralizzazione biologica. Il primo passaggio consiste nella frammentazione seguita dalla mineralizzazione (processo che converte il carbonio organico in carbonio inorganico).
C’è una grande differenza tra degradazione e biodegradazione: se si realizza solo la frammentazione vuol dire che il materiale è degradato, se a seguire si realizza anche la mineralizzazione significa che il materiale è biodegradabile, cioè che si assiste alla completa assimilazione del materiale frammentato da parte dei microrganismi, come se fosse cibo.
Tutto questo per dire che i processi sono ben più complessi rispetto a quelli descritti dalla lettrice e comunque un sacchetto, per essere commercializzato, deve rispettare parametri compositivi specifici: e oggi si conoscono i vari stadi di decomposizione.
Per tornare al tema sacchetti, è bene ricordare che esperimenti fatti in laboratorio su sacchetti in plastica tradizionale, simulando l’intervento combinato di vari fattori (sole, freddo-caldo, umidità, ambiente fortemente ossidante, danneggiamento meccanico, pH ecc.) fanno ipotizzare un tempo minimo di 20 anni per una frammentazione che renda il sacchetto invisibile. Ogni singolo pezzetto di plastica è poi soggetto all’attacco di microrganismi e alla naturale ossidazione, che portano alla demolizione delle singole molecole. Questa decomposizione può impiegare centinaia di anni ed è pertanto errato parlare di rifiuti inerti.
I nuovi sacchetti biodegradabili possono invece essere distrutti direttamente dai microrganismi. La norma europea UNI EN 13432 stabilisce che, nel normale ciclo di compostaggio, devono disintegrarsi per il 90 per cento dopo 3 mesi, e dopo 6 mesi devono essere digeriti dai microrganismi per il 90 per cento.
Gettati in terra, in mare o in un corso d’acqua, i sacchetti biodegradabili persistono però per anni nell’ambiente, proprio come quelli in polietilene.
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“I sacchetti di plastica tradizionali, invece restano inerti”. Non sono d’accordo. la plastica in sacchetti come tutti i contenitori di plastica si spezzetta sempre di piu’ finisce nei fiumi e va nel mare dove i pesci se la mangiano al posto del placton e noi ci mangiamo il pesce con la plastica dentro. risultato oggi la plastica nel sangue umano non e’ piu’ in parti per miliardo ma in parti per milione e va sempre peggio. tutta la plastica non biodegradabile va solo che abolita e va fatto il prima possibile. la balla del raccoglierla e smaltirla e’ solo una balla . prima o poi va tutta in giro e ce la mangeremo col risultato che cancro e malformazioni ringraziano
Non comprendo la frase di chiusura dell’articolo, dove dice che comunque i sacchetti biodegradabili gettati a terra mare e acqua, persistono per anni come quelli in polietilene.
Che c’azzecca con la spiegazione tecnica in cui si descrive il processo di biodegradazione, avvenire per il 90% in 3 mesi, con la completa digestione da parte di microorganismi?
Significa forse che questi microorganismi che la degradano non esistono in natura e bisogna quindi processarla in impianti dedicati? Magari senza poterla riciclare?
Se così fosse, avremmo risolto veramente poco, in quanto la stragrande maggioranza dei sacchetti e delle confezioni del packaging finiscono direttamente o indirettamente in ambiente.
Gentile Ezia, significa che il processo di biodegradazione del 90% in 3 mesi imposto dalla legge avviene a condizioni particolari (ovvero seguendo le buone regole del compostaggio), ma se il sacchetto viene buttato a terra o nel mare rappresenta comunque un inquinante. Se butto una buccia di banana a terra non posso aspettarmi che in 2 giorni sia diventata “parte della natura”.
Come ebbi ad affermare pubblicamente al congresso AICQ sin dal 1981 sulla ” certificazione di materie prime, prodotti e packaging alimentare”, le materie plastiche da imballaggio non completamente Biodegradabili (fino a mineralizzazione), alla fine del loro ciclo di vita ( come rifiuto e rifiuto riutilizzato) devono essere smaltite con INCENERIMENTO e recupero energetico, rientrando nel ciclo di utilizzo energetico del petrolio da cui sono derivate. Non c’è altra scelta razionale: il recupero deve essere necessariamente energetico, e quindi, checché ne dicano gli ecologisti “teorici” e “puri” di qualsiasi credo politico, una quota adeguata di inceneritori ( di plastica a fine vita utile e di altri materiali (o loro quote) altrimenti non riutilizzabili) deve rimanere attiva (monitorata e controllata), perché assolutamente necessaria.
quanto alle plastiche ottenute da polimeri “biodegradabili” è bene che il loro ciclo di vita venga comunque monitorato (velocità, stadi intermedi, prodotti finali) in modo da non tralasciare nulla di inesplorato relativamente alla biodecomposizione nelle diverse possibili condizioni di compostaggio .