Spesso dopo aver mangiato una pizza si digerisce con una certa difficoltà o viene una forte sete. La causa di questi disagi non risiede, come si crede, in una lievitazione incompleta, quanto piuttosto in una “maturazione” insufficiente, oppure nella scarsa qualità degli ingredienti (farina soprattutto). Qual è la differenza? Con la lievitazione l’impasto aumenta di volume grazie all’azione fermentativa del lievito (di solito Saccharomyces cerevisiae) che trasforma gli zuccheri disaccaridi in monosaccaridi, liberando acqua e anidride carbonica che rimane intrappolata nella struttura proteica del glutine.
Contemporaneamente a questo processo avviene la maturazione, fase in cui gli enzimi idrolitici (amilasi e proteasi) presenti nella farina e attivati dall’acqua aggiunta all’impasto, scompongono gli amidi e il glutine. Tuttavia, mentre la lievitazione avviene generalmente in tempi rapidi, la maturazione ottimale è condizionata da diversi fattori tra cui le caratteristiche della farina (forza, composizione proteica e amidacea), la temperatura ambiente e il tempo di lievitazione.
Con le farine forti il tempo di maturazione si allunga, occorre quindi rallentare la lievitazione e favorire i processi di scomposizione dell’amido, mettendo l’impasto a bassa temperatura (da 2 a 4 °C circa) da un minimo di 24/36 fino a 72 ore. Se si utilizza una farina più debole invece possono bastare 8-10 ore di maturazione a temperatura ambiente, valutando però sempre la dose di lievito più adatta alla temperatura. Un altro elemento da considerare è l’aggiunta di miglioranti alla farina (glutine secco per aumentare la quantità di proteine o robuste quantità di enzimi). «L’aggiunta di sostanze rinforzanti – spiega Marco Lungo esperto di pizza e lievitati – permette di velocizzare la lievitazione e quindi di accorciare i tempi di lavorazione, ma penalizza la qualità dell’impasto con ripercussioni negative sul gusto. Anche la presenza di un eccesso di enzimi è negativa perché la pizza può risultare indigesta stimolando la sete».
Se la maturazione e la cottura vengono effettuate a regola d’arte, la pizza sarà più digeribile e sicuramente più saporita. L’ultimo elemento che può scatenare la sete è l’eccessiva quantità di sale usata per correggere i difetti di una scarsa maturazione, ma questo difetto si “sente” subito al palato.
La mozzarella, che non ha una correlazione con la sete, gioca un ruolo fondamentale nella pizza. Molte pizzerie la sostituiscono con i cosiddetti “siluri” ovvero panetti a forma di cilindro ottenuti da formaggio fuso. L’aspetto accattivante di questo formaggio è il costo che rispetto alla vera mozzarella dimezza e da un punto di vista operativo si accorciano anche i tempi di lavorazione (non va fatta scolare). L’esito sul piano qualitativo e organolettico è però deludente.
Non è tutto: «Anche l’acqua – spiega Leonardo Caputo, ricercatore dell’Ispa – Cnr di Bari – ha un ruolo importante in questo complesso processo biotecnologico perché influenza la formazione del glutine, l’idratazione dell’amido nell’impasto e favorisce la lievitazione in cottura. L’acqua infatti permette la stabilità degli alveoli della mollica nel forno, quando, grazie alle alte temperature, l’anidride carbonica è ormai volata via. Alla fine, quando anche l’acqua è evaporata, la pizza continua a cuocere con la costante riduzione del numero dei lieviti (e dei conseguenti problemi intestinali) fino ad ottenere la caratteristica fragranza. Dopo questo lungo e laborioso processo per una qualità inimitabile, la pizza è pronta! Gustiamola però con pochi condimenti (non salati) tipici della tradizione italiana che esaltano il sapore della farina di grano di cui è fatta».
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Giornalista, redattrice de Il Fatto Alimentare, con un master in Storia e Cultura dell’Alimentazione
Confermo e sottoscrivo questo articolo in toto.
Nella mia esperienza professionale posso soltanto evidenziare l’importanza principale della lievitazione (più è lunga, meglio è) e della qualità delle materie prime usate.
Complimenti.
Ottimo e completo articolo!
Sottolineo la presenza del sale, che è ubiquitario per coprire i sapori (scarsi, vista la bassa qualità media degli ingredienti). Per i palati più attenti l’eccesso di sale degli impasti è immediatamente avvertibile.
Tra gli enzimi spesso -se non sbaglio- sono aggiunte le stesse amilasi (che abbiamo nella saliva e vengono secrete dal pancreas), che servono a idrolizzare i polisaccaridi, liberando “cibo” pronto per i lieviti. In questo modo sarà possibile fare lievitare meno l’impasto, almeno dal punto di vista delle dimensioni finali (ma non da quello della digeribilità). Nel servizio di Report la stessa Marinoni (famoso panificio di Milano) ne ammetteva l’utilizzo nei propri sfornati.
Con massimo rispetto per l’articolo veritiero a detta della scienza la sete e digeribilità faticosa non necessita affatto di maturazione.Certamente la maturazione e sopratutto il processo di trasformazione degli zuccheri da semplici a complessi alleggerisce il senso di sazietà,altera la fragranza in meglio ed il sapore ed il colore che tende a schiarire con la presenza di maculazione-leopardatura sul cornicione segno di ore trascorse dalla massa in puntata e appretto con tecnica ambiente o freddo.Tuttavia l’esperienza al banco mi dice che anche un impasto diretto a due ore con valore w 200/270 può risultare altrettanto digeribile leggero e senza disturbi di sete con struttura aromi e fragranze diverse tendenti al soffice e saporito.Oltre ad un impasto piu idratato piu’povero di sale nel rapporto con gli altri elementi,risulta fondamentale la cottura che dovra’essere violenta senza supereare il minuto.La sete e l’indigesto il pesantore,a mio avviso sono da amputare alla salsa di pomodoro che deve semplicemente scaldare e stare intorno ai 29 gradi in uscita.Le tossine e le parti acide presenti nel pomodoro vengono cosi’trattenute e assimilate benissimo dal ns apparato digerente.Qualora la salsa inizi oltre il minuto ad asciugare iniziando una sorta di cottura che a differenza di un sugo di almeno un ora su fuoco la dispersione di tali enzimi non avverra’ mai.Saluti
Bravi, ottimo articolo. Da quasi 2 anni ne parlo sul mio sito web http://www.cucinartusi.it anche tramite quasi 30 approfondite recensioni di pizzerie che praticano maturazione di almeno 48 ore nella mia città e provincia.
Un contributo alla discussione:
ma se la pasta di grano duro al dente (quindi quasi cruda, non lievitata ne maturata), viene digerita benissimo, salvo se condita con sughi complicati e grassi, perché la pizza diventa indigesta?
Siamo certi che gli eventuali enzimi aggiunti non sono minimamente responsabili, anzi il contrario, in quanto facilitano la digeribilità sostituendosi e coadiuvando il lavoro digestivo.
Quindi a mio parere e convinzione, restano tre possibili cause e concause:
-l’eccesso di lievito residuo non attivato, per insufficiente tempo di lievitazione, che impalla nello stomaco trovando condizioni favorevoli di temperatura ed acidità;
-l’eccesso di acidità della salsa di pomodoro, che inibisce la digestione degli amidi;
-la mozzarella ricostituita con caseinati, digeribile come un sasso.
Intanto sono due prodotti completamente diversi. La pasta è predisposta alla digerebilità grazie al processo di lavorazione che “danneggia” le sostanze in essa contenute.
A riguardo della cattiva digestione degli impasti per pizza, escluderei qualsiasi coinvolgimento del lievito durante il consumo, poichè durate la cottura a 350-400 gradi nessun microorganismo può sopravvivere. Invece, gli enzimi e i lieviti, incidono sulla digeribilità durante i processi di maturazione e lievitazione. In un buon impasto per pizza, non vengono aggiunti enzimi o altri additivi miglioratori, poichè essi sono naturalmente contenuti nelle farine e vengono attivati da alcuni processi tra i quali quello di idratazione.
La salsa di pomodoro, la mozzarella e qualunque altro ingrediente che condisce la pizza può ovviamente essere più o meno indigesto in base alle personali sensibilità di chi li consuma.
L’unica differenza tra pasta e pizza è che qust’ultima è lievitata e spesso poco e male.
Quante pizzerie impastano a mano, o usando l’impastatrice che destruttura i legami proteici ed amidacei, come si fa con la pasta?
La cottura del forno a 350-400°C. è la temperatura dell’aria che sappiamo contenere poco calore e per fortuna la pizza, se non bruciata direttamente dalle fiamme della legna, o da un tempo di contatto eccessivo con la base, non raggiunge mai temperature alte, tanto che spesso al cuore meno lievitato, è ancora cruda.
L’esperienza di Fabrizio, che la pizza la produce senza far scaldare la salsa di pomodoro sopra i 39°C. è significativa a provare che la violenza della breve cottura non surriscalda l’alimento, che opportunamente lievitato e leggero, cuoce velocemente senza bruciare. Mantenendo un buon grado di umidità, entro i limiti di un’evaporazione eccessiva, che la secca ed indurisce.