L’intero settore della pesca marina rischia di entrare in seria crisi a causa del fenomeno globale del cambiamento climatico. Questo è ciò che si legge sulla rivista scientifica Nature Climate Change del 20 novembre scorso, che in un articolo offre un’ampia e dettagliata analisi della questione.
Ogni anno, si pescano, in mare, circa 80 milioni di tonnellate di pesce, per un giro d’affari che si aggira sugli 80-85 miliardi di dollari. Direttamente o indirettamente attraverso l’indotto, la pesca marina sostiene oltre 520 milioni di persone nel mondo. Un’impresa globale formidabile, insomma, senza contare che in alcune comunità dei paesi in via di sviluppo il pesce è praticamente l’unica fonte di proteine disponibile.
Non solo l’atmosfera: anche gli oceani si stanno scaldando e con l’aumento delle temperature si registrano altri eventi geochimici di grande rilievo: le acque marine, per esempio, stanno diventando più acide a causa dell’accumulo di anidride carbonica (CO2), mentre in alcune zone si registra una significativa diminuzione della concentrazione di ossigeno. Tutti fenomeni destinati ad avere importanti ripercussioni sugli stock di pesce in mare.
Tanto per cominciare, mano a mano che le temperature salgono i pesci tendono a spostarsi, per raggiungere aree più fresche, tipicamente più a Nord oppure a profondità maggiori. Negli Stati Uniti, per esempio, alcuni ricercatori hanno osservato lo spostamento verso Nord di ben 15 specie di pesci su 36 prese in considerazione; tra queste, alcune specie di merluzzo, l’aringa, lo spinarolo. In generale, nei mari settentrionali si sta registrando un significativo aumento delle popolazioni di pesci come spigola e triglia di scoglio. «È chiaro» si legge nell’articolo su Nature Climate Change «che questi cambiamenti di distribuzione causeranno perdite di specie in alcuni luoghi, acquisizioni in altri e in generale una massiccia ristrutturazione delle comunità oceaniche».
Non è tutto, perché acque più calde significano anche pesci più piccoli e che fanno maggior fatica a riprodursi. Il che, unito alle difficoltà per l’ambiente più acido e con meno ossigeno, comporta una diminuzione delle dimensioni delle popolazioni, e di conseguenza delle risorse ittiche disponibili. Insomma, se le cose continueranno così, quello che ci aspetta, almeno secondo gli autori dell’analisi, è un mondo in cui gruppi sempre meno numerosi di pesci (già provati per altro da fenomeni come inquinamento e sovrasfruttamento) finiranno con l’occupare aree oceaniche ogni volta più piccole.
Ma anche le conseguenze economiche si prospettano decisamente importanti. Basti pensare a quello che è successo alla fine degli anni Novanta in Cile e Perù a seguito del Niño (fenomeno climatico periodico caratterizzato dal riscaldamento delle correnti del Pacifico): la cattura in mare si è ridotta del 50%, con perdita di oltre otto miliardi di dollari. «In generale» scrivono gli autori «ci aspettiamo un aumento della produttività ittica delle acque artiche o subartiche e una netta diminuzione di quelle tropicali». Significa in breve che alcune aree geografiche potranno anche, a lungo termine, avvantaggiarsi della nuova situazione, ma certo non a costo zero. Se cambiano le riserve ittiche in una zona, bisognerò cambiare anche tutto ciò che ruota attorno al mondo dell’industria ittica: le attezzature dei pescherecci, le catene di lavorazione nelle aziende di trasformazione e così via. Cambiamenti che probabilmente si faranno sentire anche sul prezzo del pesce. Così come alcuni equilibri geopolitici potrebbero risentirne e in alcuni casi sta già succedendo, con l’Islanda e le isole Faroe che si contendono gli stock atlantici di sgombro.
«Tutti questi cambiamenti si prospettano mentre la popolazione mondiale, in continua crescita, si appresta a chiedere sempre più cibo», ha affermato in un’intervista audio uno degli autori dello studio, Rashid Sumaila, della Fisheries Economics Research Unit dell’Università della British Columbia. «Sembra quella che gli economisti chiamano tempesta perfetta. Non possiamo farci trovare impreparati: in genere siamo abituati a cercare di aggiustare le cose quando il danno è fatto. In questo caso dovremmo proprio cercare delle soluzioni strada facendo». La prima proposta? Naturalmente, cercare di ridurre il fenomeno di riscaldamento globale.
Valentina Murelli