Giovane donna tiene in mano bicchiere con bevanda zuccherata tipo cola con ghiaccio e limone mentre con l'altra mano fa il segno del pollice in giù

Non sono solo i medici e i ricercatori a cadere nelle trappole ben organizzate da alcune multinazionali affinché si neghi l’evidenza scientifica, qualora questa sia contro qualcuno dei loro prodotti. Nella lista delle vittime più o meno consapevoli o complici ci sono anche, e con ruoli di primaria importanza, i giornalisti – scientifici e non – che, accettando notizie diffuse dalle aziende senza verificarle e senza adottare uno sguardo critico, a volte in cambio di benefici e regali, diventano megafono delle stesse. Lo conferma, purtroppo, ancora una volta il British Medical Journal, dopo aver consultato molti documenti desecretati di recente e riguardanti la Coca-Cola e i suoi dubbi rapporti con alcuni accademici e, soprattutto, molti giornalisti.

La vicenda dei giornalisti

Ecco i fatti ricostruiti dalla rivista britannica e relativi all’energy balance. Il messaggio che la Coca-Cola, sempre più in crisi per l’aumento delle prove incontestabili sui legami tra consumo di soft drinks e obesità, ha cercato di far passare, è questo: non conta quante soda si bevono, purché si faccia sport e, alla fine, si consumino le calorie eventualmente assunte in eccesso. Per rafforzare l’associazione, la Coca-Cola per anni innanzitutto sponsorizza grandi eventi sportivi. Ma tutto ciò ha bisogno anche di una copertura mediatica favorevole, ed ecco il piano: coinvolgere un ateneo stimato, l’Università del Colorado e, attraverso di esso, i media.

L’università riceve una donazione da un milione di dollari per dar vita al Global Energy Balance Network, una rete di esperti e divulgatori che, basandosi in teoria sulle prove scientifiche (da cui il sigillo dell’università), dovrebbe informare sulla questione. Tuttavia la cosa non regge a lungo: nell’estate del 2015 il New York Times e l’Associated Press avanzano pesanti dubbi sull’opportunità della liaison, e l’opinione pubblica inizia a capire. Risultato: il network viene chiuso, e il denaro restituito alla Coca-Cola.

giornalisti
L’università del Colorado ha ricevuto una donazione da un milione di dollari per dar vita al Global Energy Balance Network

Cos’è successo?

Ora grazie ai nuovi documenti, si capisce che cosa è successo. In sintesi, le carte mostrano scambi di email e corrispondenza da cui emerge che fino dal 2011 l’Università è stata coinvolta in iniziative organizzate al solo scopo di convincere i giornalisti a sposare la linea dell’energy balance. È il caso, per esempio, dell’organizzazione da parte dell’Università nel 2012 di un evento a Washington con una ventina di giornalisti, con il patrocinio della National Press Foundation, un ente di categoria no profit. Alcuni mesi dopo l’incontro, il responsabile del progetto James Hill, pediatra dell’Università, scrive alla Coca-Cola rallegrandosi, di fatto, dell’ingenuità dei giornalisti, viste le coperture sui media ottenute, e chiedendo di sponsorizzare incontri simili anche negli anni seguenti.

Richiesta esaudita, con ulteriori 45.000 dollari a Hill. Il quale, instancabile, continua, e nel 2013 organizza un altro meeting sull’obesità, sempre con il benestare della National Press Foundation che, a quanto risulta, viene tenuta all’oscuro di tutto ciò che sta accadendo. Un altro successo, a giudicare dalle ricadute, e ulteriori promesse di continuare così.

La storia si ripete

Altri esempi sono un corso per giornalisti organizzato nel 2012 sempre dall’Università del Colorado, e pagato con 45.000 dollari dalla Coca-Cola. E un ulteriore incontro del 2014, sponsorizzato sempre da Atlanta con altri 37.500 dollari. La domanda lecita è: quali informazioni avranno ricevuto i corsisti e i partecipanti a queste iniziative? Ma se i giornalisti sono attori attivi della diffusione di notizie distorte o chiaramente false, lo sono – per fortuna – spesso anche di quelle che servono a smascherare la verità. E’ il caso del New York Times e dell’Associated Press, come visto ma, anche, di Kristine Jones, una reporter che invia un esposto proprio alla National Press Foundation, sollevando dubbi sui finanziamenti di uno dei meeting, svoltosi nel 2014.

Il presidente della NPF Bob Meyers, in seguito dimessosi proprio per la vicenda, scopre che l’Università ha ricevuto 10.000 dollari e chiede spiegazioni a Hill, ma la risposta è che i fondi arrivano da quelli destinati alle iniziative di educazione. Peccato che lo stesso autore della risposta, pochi mesi dopo, scriva alla Coca-Cola ringraziandola per la sponsorizzazione di quell’evento del 2014.

Cosa dovrebbero controllare i giornalisti?

La National Press Foundation reagisce come può, e pubblica tutto ciò che è nato da quella conferenza, compresi articoli su siti e giornali, tra i quali quelli dai toni entusiastici di Jen Christensen, giornalista della CNN, che pubblica alcune perle come un pezzo intitolato: “I produttori di soda vogliono abbattere le calorie, ma la dieta è davvero il meglio?”. Christensen, fa notare il BMJ, è ancora al suo posto e si rifiuta di commentare il ruolo avuto in quella storia.

Non si sa, dunque, se e quanto lui sia consapevole di essere stato uno strumento di propaganda. Ma ciò che è si sa è che sta anche al giornalista controllare che gli incontri ai quali viene invitato non siano dei tranelli. Come? Lo spiega una grande divulgatrice, oltreché nutrizionista: Marion Nestle, della New York University: quando in un panel di esperti figurano, come nel caso del 2014, rappresentanti della Coca-Cola e di McDonald’s per discutere di obesità, qualche domanda preventiva bisogna porsela, così come bisogna porsela quando il programma fa capire che si tratta di un evento pensato e pagato dalle aziende, e quando le spese sono offerte da qualche sponsor che non dichiara la provenienza dei fondi come un network o una fondazione sconosciuta.

Anche perché se un giornalista, soprattutto se lavora in ambito scientifico, tratta temi che riguardano la salute e ha a che fare con aziende di ogni tipo, dalle più oneste a quelle più opache, non se le pone, queste domande, forse farebbe meglio a cambiare mestiere.

© Riproduzione riservata

0 0 voti
Vota
2 Commenti
Feedbacks
Vedi tutti i commenti
luigi
luigi
14 Aprile 2017 15:21

le multinazionali, ve le raccomando…

Carla
Carla
19 Aprile 2017 15:54

Quando verremo a sapere dell’operato di tutte le altre multinazionali del Big Food?
E intanto loro guadagnano lautamente, gli esseri umani si ammalano e muoiono sia di malattia che di fame, il pianeta viene distrutto, gli animali non umani torturati e uccisi.
Se però il big food agisce in tal modo vuol dire che c’è chi glielo permette!
Carla