Che controlli vengono fatti sui formaggi? Qual è la differenza tra DOP, STG e TAP? Che cos’è la certificazione di filiera? A queste domande risponde Angela Maria Allegra, veterinario del Servizio di igiene dell’Asl Novara che da anni si occupa di queste tematiche e di controlli sul territorio per garantirne la sicurezza ai consumatori.
Come avviene in genere la produzione casearia?
I formaggi, secondo la normativa italiana, vengono prodotti a partire da latte intero o parzialmente scremato delle diverse specie animali (bovini, ovini, caprini), sale e caglio; a questi ingredienti possono essere aggiunti i fermenti lattici, chiamati anche innesti (per facilitare la caseificazione quando il latte viene sottoposto a pastorizzazione), muffe particolari come nel gorgonzola, spezie di vario tipo (zafferano, cumino, pepe, ecc.). Non è ammessa l’aggiunta di altre sostanze; più precisamente i formaggi vengono distinti in formaggi a coagulazione lattica e presamica.
Cosa significa?
Nei primi la coagulazione, cioè il passaggio dalla fase liquida a quella solida, avviene per azione dei batteri lattici normalmente presenti nel latte (in alcuni casi viene aggiunta una piccola dose di caglio). Nei formaggi a coagulazione presamica la coagulazione è determinata dall’azione del caglio (o presame). Segue la rottura della cagliata (solo per i formaggi a coagulazione presamica) con strumenti differenti a seconda delle dimensioni dei granuli che si vogliono ottenere (spino, lira, spada). Più i granuli saranno piccoli, maggiore sarà lo spurgo, cioè l’eliminazione del siero e maggiore sarà la compattezza del formaggio. Con lo spurgo la massa si rassoda e successivamente viene messa in forme di diverso tipo e dimensioni per la successiva stagionatura. La salatura può avvenire con l’aggiunta di sale nel latte, con l’immersione in salamoia (soluzione di acqua e sale) o mediante strofinamento sulla superficie del forme ancora fresche. Altre azioni possibili sono la stufatura, ovvero il riposo delle forme a 20-22°C per 6/24 h., la pressatura che servono a ridurre ulteriormente il quantitativo di siero; ancora si può eseguire la salinatura o la spazzolatura per pulire la crosta durante la stagionatura.
Cosa viene controllato?
Se parliamo di controlli di tipo igienico-sanitario, sono a carico sia del produttore stesso (e allora si parla di autocontrollo) sia dell’autorità competente che in Italia è rappresentata essenzialmente dai Servizi Veterinari. In entrambi i casi si controllano la qualità della materia prima latte e degli altri ingredienti, l’igiene della produzione, estendendo i controlli a locali, attrezzature e personale; il corretto mantenimento delle temperature di pastorizzazione, di coagulazione e di stoccaggio del prodotto finito.
È molto importante la formazione del personale, perché cattive o errate manualità possono compromettere in modo anche grave la salubrità del prodotto.
Il consumatore può sentirsi tutelato quando trova gli acronimi DOP – denominazione di origine protetta – e STG – specialità tradizionale garantita? Che differenze ci sono?
Senza dubbio i marchi DOP, STG, IGP sono una garanzia di autenticità e di italianità del prodotto (almeno per quanto riguarda i formaggi), ma tengo a precisare che dal punto di vista dei nostri controlli non c’è differenza, cioè l’attività ispettiva viene eseguita allo stesso modo anche per i formaggi non marchiati. I formaggi marchiati subiscono dei controlli ulteriori da parte dei relativi Consorzi di appartenenza, per verificare che il “Disciplinare” – il testo normativo che spiega come deve essere fatto quel formaggio -, sia stato rispettato.
DOP indica la Denominazione di Origine Protetta: tutto ciò che concerne l’elaborazione del prodotto ha origine nel territorio dichiarato, che conferisce al prodotto tutte le sue qualità. Quindi affinché un prodotto sia DOP le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione devono avvenire in un’area geografica delimitata.
Il marchio IGP segnala l’Indicazione Geografica Protetta; il territorio dichiarato conferisce al prodotto, attraverso alcune fasi o componenti della elaborazione, le sue caratteristiche peculiari, ma non tutti i fattori che concorrono all’ottenimento del prodotto provengono dal territorio dichiarato.
Per ottenere la IGP, quindi, almeno una fase del processo produttivo deve avvenire in una particolare area. Così, ad esempio, la Bresaola della Valtellina è prodotto IGP e non prodotto DOP perché ottenuta da carni di animali che non sono allevati in Valtellina, pur seguendo i metodi di produzione tradizionali e beneficiando, nel corso della stagionatura, del clima particolarmente favorevole della zona. Per i formaggi l’unica IGP è il Canestrato del Moliterno. Il latte ovicaprino proviene da Comuni delle provincie di Matera e Potenza, ma la stagionatura può avvenire solo a Moliterno che è in provincia di Potenza.
Il marchio STG indica la Specialità Tradizionale Garantita. Si parla talvolta anche di Attestazione di Specificità. Questa denominazione spetta agli alimenti ottenuti da materie prime o ingredienti utilizzati tradizionalmente o con un metodo di produzione tradizionale in uso in Italia da almeno 30 anni, ma non è legato ad un territorio (mozzarella). La STG si rivolge a quei prodotti agricoli e alimentari che abbiano una “specificità” legata al metodo di produzione o alla composizione legata alla tradizione di una zona, ma che non vengano prodotti necessariamente solo in tale zona. In Italia abbiamo 48 DOP (in Francia 45), 1 IGP e 1 STG. In Piemonte ci sono 6 DOP esclusive e altre 3 condivise con altre regioni (gorgonzola, taleggio, grana padano). Inoltre abbiamo circa 50 PAT: Prodotti Agroalimentari Tradizionali.
Vengono definiti PAT i prodotti agroalimentari e agricoli caratterizzati da metodiche di lavorazione, conservazione, stagionatura consolidate in un dato territorio da almeno 25 anni: essi sono inoltre strettamente vincolati a fattori quali la tradizione, il territorio, le materie prime e le tecniche di produzione (in Piemonte: caprino della Val Vigezzo, ossolano, Tomino di Talucco, Seirass o Ricotta piemontese, maccagno, ecc)
Come si conserva il formaggio?
In generale i nemici del formaggio sono l’essiccamento, la mancanza d’aria, l’eccesso di freddo (che ne blocca le qualità organolettiche) e l’eccesso di calore (che ne facilita la fermentazione). Le modalità di conservazione sono dunque diverse: il formaggio fresco o freschissimo va conservato a temperatura di frigorifero per pochi giorni; i formaggi stagionati, se sono in forma intera possono essere conservati a temperatura di cantina o comunque a temperatura variabile da 10 a 15-16°C. I formaggi stagionati porzionati sono come i freschi e devono essere conservati in frigorifero.
Perché si è infiammata la polemica su latte in polvere o latte fresco per i formaggi?
Dal 11 aprile del 1974 con la legge n. 138, l’Italia ha deciso di vietare l’utilizzo di polvere di latte per produrre formaggi, yogurt e latte alimentare ai caseifici situati sul territorio nazionale. Questa misura aveva lo scopo di mantenere alta la qualità delle produzioni casearie italiane. Per la Comunità Europea si tratta di una indebita restrizione alla “libera circolazione delle merci”. Di conseguenza lo scorso 28 maggio la CE ha recapitato all’Italia la lettera di costituzione in mora, primo passo al quale è seguita la procedura di infrazione n. 4170. Dal punto di vista sanitario non esiste nessun problema all’utilizzo di polvere di latte per la produzione casearia, ovviamente se non si tratta di prodotti DOP o PAT. Anzi è una limitazione senza senso perché molti dei formaggi e degli yogurt provenienti dagli altri paesi della comunità e liberamente venduti nei nostri negozi sono fatti con latte in polvere.
Cos’è la certificazione di filiera?
La certificazione di Filiera controllata appartiene alla famiglia delle certificazioni di prodotto in ambito volontario. Questa certificazione si basa su due principi: filiera e rintracciabilità. La certificazione di Filiera controllata attesta che, con ragionevole attendibilità, viene garantita e documentata lungo tutta la filiera la rintracciabilità del prodotto e che sono gestiti in tutte le fasi i requisiti igienico-sanitari, secondo i criteri dell’HACCP.
Ai fini della certificazione è indispensabile che:
- le organizzazioni della filiera siano tra loro correlate da vincoli contrattuali (per la condivisione degli obiettivi comuni);
- l’organizzazione predisponga un documento (il Disciplinare Tecnico) condiviso da tutti i soggetti della filiera. La certificazione rappresenta un’ulteriore garanzia per l’acquirente perché il prodotto alimentare è il risultato di un processo gestito e controllato fin dall’origine e lungo tutta la filiera.
- Aspetti positivi
- la gestione per lotti permette di identificare in ogni momento i flussi materiali e le attività che hanno contribuito alla produzione del prodotto finito;
- l’agevole gestione di un eventuale richiamo del prodotto in situazioni di emergenza;
- la promozione dell’immagine aziendale.
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Salvo paesi non produttori di latte , o con enormi variazioni produttive stagionali (es. Cina, Brasile, Russia…) dove viene utilizzato latte in polvere , che non è altro che latte disidratato. non una parolaccia , ottenuto in massima parte in paesi con forti eccedenze rispetto al fabbisogno (Nuova Zelanda, Argentina..), in Europa, Italia esclusa, il latte in polvere non viene utilizzato come sostitutivo del latte liquido, ma solo per standardizzarlo nel contenuto proteico, quindi in ridotte quantità, con grande vantaggio tecnologico (standardizzazione della qualità e dei parametri produttivi, nonché del prodotto finito ben riconoscibile dal consumatore). In Italia la legislazione ne vieta l’utilizzo, e la detenzione negli stabilimenti lattieri, soprattutto per evitare FRODI, un tempo più diffuse , di uso di latte in polvere destinato all’alimentazione animale, che però deve per tale destinazione contenere sostanze traccianti facilmente riconoscibili con analisi semplici (es. amido…). La favola dei formaggi importati e di cagliate prodotte con ” latte in polvere” (non si capisce perché nei paesi europei con più quote si dovrebbe polverizzare il latte per poi ridiscioglierlo per fare i formaggi con maggior costo) è utilizzata da Coldiretti per scopi “politici”, favola ancor oggi sbandierata col decadere del regime delle quote e con la concorrenza per costi di produzione e qualità della materia prima (contenuto proteico, etc.)
Mettiamo ipotesi che lei abbia un’azienda produttrice di latte e la latteria si rifiuta di raccoglierle il latte perché preferisce usufruire del latte in polvere e di conseguenza è costretto a buttare quintali di latte prodotto con fatica. Cosa ne pensa a riguardo?