C’è una fonte insospettabile di zucchero nella dieta di molte persone: le bevande alcoliche aromatizzate che oltre all’alcol contengono estratti di frutta e simili. Per questo motivo Action on Sugar ritiene importante fare rientrare queste bevande nella tassazione sullo zucchero adottata in alcuni Paesi e pretendere che venga indicata la quantità in etichetta.
Action on Sugar (gruppo del Queen Mary Hospital di Londra che lotta per la riduzione del consumo di zuccheri in chiave antiobesità) ha appena reso noti i risultati di una sua indagine condotta su 202 prodotti acquistati sia online che nei più diffusi supermercati. I dati emersi sono stati definiti dagli esperti interpellati “scioccanti”. In alcuni casi la concentrazione di zuccheri è uguale a quella della Coca-Cola. L’altro elemento evidenziato è che solo il 10% delle etichette riporta informazioni specifiche in etichetta, e solo nel 41% c’è qualche tipo di dicitura nutrizionale.
Per avere ulteriori conferme, i ricercatori hanno fatto analizzare 21 prodotti in laboratorio che hanno confermato le elevate concentrazioni di zucchero. Un cocktail della Tgi Fridays al frutto della passione ne contiene 49 grammi in mezzo litro (pari a 12 cucchiaini da tè, lo stesso quantitativo presente in due lattine di Red Bull), un Mojito rosa ne ha 46, e il Dajikiri di Tesco arriva a 36 per 250 ml, pari a 9 cucchiaini da tè. Il peggiore di tutti è WKD Blue, un drink a base di frutta e alcol, che in 700 ml riesce ad accumularne ben 59 grammi.
Un altro dato che colpisce è la variabilità della concentrazione nello stesso tipo di bibita: per esempio in alcuni tipi di acque aromatizzate all’alcol il quantitativo può variare anche di dieci volte (da 0,5 a 5 grammi in 250 ml).
Gli autori sottolineano che già nel 2017 l’Unione Europea aveva invitato i produttori di alcolici a migliorare l’etichettatura fornendo le indicazioni nutrizionali e la composizione su base volontaria. Solo pochissime aziende però si erano impegnate a modificare le ricette, e quasi nessuno è intervenuto sulle etichette. Il fatto che alcuni siano riusciti a proporre drink meno dannosi per la salute (sia riducendo drasticamente il contenuto di zucchero sia sostituendolo con un dolcificante, come è avvenuto in alcuni spritz) senza perdere clientela, dimostra come sia solo una questione di volontà, almeno fino a quando non ci saranno normative più stringenti o tasse specifiche.
Action on sugar chiede che questi drink siano fatti rientrare nella normativa della sugar tax, che prevede che qualunque bevanda con più di 5 grammi di zucchero per litro sia tassata (18 penny per litro, pari a circa 21 centesimi di euro o 24 penny, pari a 28 centesimi, quando lo zucchero sale a 8 g/100 ml). Anche le etichette dovrebbero essere assimilate a quelle delle altre bevande secondo quanto previsto dalla normativa europea che, evidentemente, si vuole mantenere come punto di riferimento anche dopo la Brexit.
Gli alcolici sono poi stati presi di mira anche in Australia, dove non esiste una tassazione specifica, ma dove il consumo è in aumento. Secondo uno studio condotto dai ricercatori dell’Università La Trobe di Melbourne e pubblicato su Addiction, introdurre una tassa di circa 80 centesimi di euro (1,3 dollari australiani) per confezione media si tradurrebbe in un calo del 10% di consumi, diminuzione che potrebbe arrivare anche al 14% tra chi ne ha più bisogno, e cioè i cosiddetti grandi bevitori.
L’Australia, a differenza del Canada e di alcuni paesi europei, non ha ancora una tassa sulle bevande alcoliche, ma ha tassi di consumo medio molto elevati, pari a circa 14 drink a settimana. Nello studio vengono prospettate diverse ipotesi di tassazione, sulle quali sono stati interrogati più di 1.700 australiani. La conclusione è che una tassa sull’alcol aiuterebbe tutti a bere di meno.
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Giornalista scientifica