Sullo scaffale degli oli di oliva vedo una bottiglia di vetro con la scritta “veg” in etichetta e un’altra con il marchietto “vegan ok” e mi chiedo quale sia il motivo visto che l’extravergine è per definizione un prodotto “vegano”. Osservando bene le diciture scopro però che una bottiglia contiene una quantità di vitamina B12 ricavata da fermentazione batterica. Si tratta di un elemento nutrizionale importante nell’alimentazione di un vegano perché poco presente nei vegetali e che quindi è stato aggiunto all’olio.
Nelle altre bottiglie però l’integrazione non c’è ma compare lo stesso un marchio riferito alla dieta vegana, perché? “Nel caso dell’olio extravergine – spiega l’avvocato Dario Dongo esperto di diritto alimentare – la parola “veg”, oltre che essere riferita a un prodotto effettivamente vegetale è avallata dalla presenza della vitamina B12, un elemento aggiuntivo rispetto agli altri oli extravergini che risulta coerente con il concetto “vegano” visto che non è di origine animale. Detto ciò va però ribadito che il problema del marchio veg sui prodotti è un po’ un’incognita – continua Dongo – perché non è normato in maniera univoca. Le parti sociali interessate (associazioni di consumatori vegetariani e vegani, associazioni ambientaliste, confederazione delle industrie alimentari in Europa) hanno più volte sollecitato la Commissione europea ad adottare regole fisse per designare un alimento come “vegetariano” o “vegano”, senza successo, nonostante le promesse del Commissario Vytenis Andriukaitis. Per questo motivo oggi la dicitura “veg” con annessi simboli o altre diciture non è soggetta ad alcuna norma specifica”. L’utilizzo della scritta “vegetale”, “vegetariano” o “vegano” è quindi stabilita liberamente dal produttore che deve rispondere a livello normativo alle pratiche leali d’informazione del regolamento UE 1169/11, articoli 7 e 36″.
“La realtà è che in assenza di una normativa europea e quindi di standard ufficiali di riferimento – precisa Fabrizio Piva presidente del Ccpb – ognuno si comporta come crede. Noi come ente di certificazione esaminiamo i prodotti vegani e proponiamo diverse possibilità. La cosa più semplice è una certificazione sul singolo prodotto, verificando l’assenza di ingredienti di origine animale anche con analisi del dna. La seconda possibilità è estendere i controlli all’intera filiera dal campo alla tavola con la possibilità di trattare anche l’imballaggio. I costi delle analisi anche nei casi più complessi non incidono in modo significativo sul valore del prodotto, si tratta di frazioni percentuali. Quello che veramente pesa a livello aziendale sono i costi per adattare il sistema di produzione alle regole vegane“.
Sul mercato ci sono i prodotti con il marchio V-Label, distribuito da V Label Italia con il patrocinio dell’Associazione Vegetariana Italiana. Si tratta di un logo inizialmente europeo diventato internazionale essendo registrato in oltre 70 paesi al mondo (di recente adottato anche in Corea e negli Stati Uniti). Nel 2017 era presente su circa 15 mila prodotti alimentari. Il controllo e il rilascio dell’approvazione avviene in modo documentale. I produttori interessati devono fornire una serie di informazioni tramite un questionario. In una seconda fase, sulla base di quanto dichiarato viene fatta una verifica di tutta la documentazione tecnica necessaria e si verifica il metodo produttivo per escludere la presenza di cross contamination volontaria o involontaria oltre i limite consentiti dai criteri del marchio. Il dossier viene alla fine esaminato e, se tutto è coerente e non si riscontrano criticità, viene rilasciato il marchio da stampare sulle etichette. Quando ci sono elementi poco chiari, si può fare intervenire un ente certificatore esterno (noi ci affidiamo a Csqa, uno degli enti di certificazione più qualificati in Italia specializzato nell’ambito alimentare) per fare verifiche e ispezioni in loco.
In Italia il marchio V-Label è stato richiesto dai supermercati Lidl per l’intera linea di prodotti vegani e vegetariani della linea My Best Veggie e più di recente anche da Despar Italia per identificare i prodotti della linea Veggie. Tra i prodotti più noti spicca invece il Cornetto Veggy Algida, Vegano, lanciato due anni fa. V Label Italia, con il patrocinio dell’Associazione Vegetariana, rilascia anche un secondo marchio chiamato Qualità Vegetariana (disponibile come il V-Label nelle categorie “vegetariano” e “vegano”) che certifica tutta la filiera di produzione di un’azienda, dagli ingredienti allo stoccaggio della materia sino al confezionamento. In questo caso è necessario l’affidamento dei controlli al Csqa per un esame complessivo delle linee di produzione. “Il secondo marchio – precisa Sophia Somaschi, amministratore di V Label Italia – è un segno distintivo di qualità certificata, è quindi un marchio di élite meno diffuso rispetto al marchio V-Label”.
Un’altra soluzione è quella proposta da VeganOk, che rilascia un marchio di garanzia da posizionare sull’etichetta previo pagamento di circa 540 € all’anno (il prezzo varia in funzione delle dimensioni del produttore). Il marchio si riceve dopo avere compilato un modulo di autodichiarazione allegando documenti e schede tecniche sui singoli ingredienti utilizzati.
“Si tratta di una certificazione completamente diversa dalle altre – spiega Sauro Martella ideatore del marchio – il disciplinare è il più rigido tra quelli esistenti e prevede tra l’altro il divieto di utilizzo di olio di palma (neanche quello certificato), il divieto di effettuare o commissionate esperimenti su animali e viene anche verificata l’assenza di parti animali negli imballaggi, colle, adesivi, inchiostri e tappi delle bottiglie. Attualmente in Italia i prodotti certificati da VeganOk sono oltre 12 mila (la maggior parte nel settore alimentare) e le aziende 1.154 (630 paganti e le altre accreditate gratuitamente grazie alla rete di attivisti che sostengono il progetto).
Ovviamente – continua Martella – noi prima dell’immissione in commercio verifichiamo ogni etichetta prima dell’approvazione. Si tratta di controlli basati sull’autodichiarazione e sulle schede tecniche dei vari prodotti. Tra i nostri aderenti solo una decina di aziende hanno scelto di affidare ulteriori controlli a un ente certificatore esterno che fa le analisi sui prodotti e sulla filiera. Nel nostro sito inoltre indichiamo i casi riscontrati di prodotti non conformi”.
Esiste anche un’altra certificazione, Qualità Vegana®, rilasciata da éQ studio srl, agenzia di comunicazione specializzata nel mondo bio, che vengono verificati da organismi di certificazione terzi, che ad oggi ha certificato circa 500 prodotti. In questo caso il marchio può essere di tre livelli diversi, sempre più esigenti, e garantisce assenza di ingredienti di origine animale e di OGM nel prodotto e nella confezione, il costo dipende dal numero di prodotti certificati. La caratteristica interessante in questo caso è che il disciplinare può essere applicato alla ristorazione e alle strutture ricettive turistiche.
Di fronte a questo panorama assortito è lecito avere qualche perplessità. Un conto è certificare un prodotto sulla base dell’autocertificazione, o su base documentale con dei controlli come sembrano fare in vario modo la stragrande maggioranza dei produttori, altra cosa è fare certificare da un ente esterno l’intera filiera. La sensazione è che, tranne i pochi casi dove esiste un controllo della filiera certificato, bisogna fidarsi dei produttori. In altre parole tutti possono etichettare un prodotto come vegano, come fanno alcuni supermercati che propongono linee specifiche di prodotti per vegetariani e vegani senza riportare marchi o loghi sull’etichetta. In questa situazione dove sembra regnare un po’ di confusione è più che mai necessario definire a livello europeo un regolamento con dei riferimenti precisi, altrimenti tutti possono inventare un marchio, stamparlo sulle etichette e autoproclamarsi vegano.
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[sostieni]
Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
“In questa situazione dove sembra regnare un po’ di confusione è più che mai necessario definire a livello europeo un regolamento con dei riferimenti precisi, altrimenti tutti possono inventare un marchio, stamparlo sulle etichette e autoproclamarsi vegano.”
E’ esattamente quello che è avvenuto e che continua a moltiplicarsi senza regole ne principi condivisi.
Il problema è alla base del principio e filosofia vegana, che ha e può avere sensibilità diverse quindi difficili da definire con chiarezza d’intenti.
Dove inizia e dove finisce la ricerca di contaminazioni estranee al mondo vegetale?
Gli animali uccisi per far posto alle coltivazioni estese di materie prime vegetali, gli animali impiegati per le piccole coltivazioni sempre di materie prime come ad esempio il caffè, il tè ed il cacao sono sfruttati ingiustamente?
E tutti gli esseri umani sfruttati, quando non eliminati dai loro territori d’origine, per far posto alle immense coltivazioni estese di molte materie prime vegetali di consumo esteso?
E cosa dire di tutti gli ingredienti di origine chimica sperimentati sugli animali per la sicurezza alimentare e di contatto?
Ed ancora dove inizia la sensibilità dei consumatori vegani, verso le contaminazioni accidentali crociate nei laboratori, magazzini e trasporti vari degli alimenti e sostanze usate per produrre alimenti, cosmetici e detergenti vari?
Infine, dove inizia e finisce la sensibilità dei consumatori vegani ed anche vegetariani, il concetto di qualità intrinseca e/o naturale di ciò che acquistano? Forse che naturale o artificiale e chimico di sintesi sono la stessa cosa per loro? Non credo proprio e non lo spero.
Tutte sfumature non banali, ma che non credo chiare ne condivise nel mondo vegano e soprattutto difficili da normare per una validazione univoca ed estesa.
Buon giorno,
il veganesimo, meglio sarebbe definirlo l antispecismo o bioetica animale ha tra gli altri ,due obiettivi primari:
1)Il riconoscimento di uguale status morale agli animali non umani senzienti e autocoscienti, visto che nessuno ha mai dimostrato una caratteristica moralmente rilevante presente in tutti e solo gli animali umani ed assente in tutti gli animali non umani che consenta di giustificare una disparita’ di trattamento per quel che riguarda i valori fondamentali della vita, dell integrita’ fisica e della liberta’di sviluppare il proprio telos.
2) l opposizione allo sfrenato liberismo del sistema capitalistico economico considerato la causa di tutte le forme di sfruttamento dei piu’ vulnerabili animali umani od non umani e dell alienazione dell uomo moderno.
Partendo da questi presupposti vorrei discutere su due punti menzionati, per ragioni di spazio .
a) Gli animali non umani uccisi nelle pratiche colturali . Nei sistemi giuridici moderni, gli esseri umani hanno riconosciuto eguale status morale; tutte le costituzioni e le legislazioni prevedono il diritto alla vita, all integrita’ fisica, alla liberta’. Questo non significa che un essere umano sia obbligato a sacrificare la propria vita per un altro. Esistono infatti fattispecie giuridiche quali la Legittima difesa, l’ Uccisione Involontaria, l Stato di Necessita’ o il Soccorso Necessitato che prevedono la liceita’ dell atto di togliere la vita ad un altro essere umano in determinate circostanze, quando è in pericolo la sopravvivenza dell agente.
Ora non credo che si richieda ai vegani la vocazione al martirio di se stessi per la sopravvivenza di altri animali umani o non umani; l uccisione di animali senza dolo ne’ colpa nelle operazioni colturali rientra perfettamente nella fattispecie dello stato di necessita’, cosi’ come l uccisione di virus e batteri per salvaguardare la propria salute, e cosi come, per evitare future stucchevoli obiezioni, l uccisione degli insetti sul parabrezza rientra nella fattispecie dell uccisione involontaria.
Nessuna contraddizione morale quindi, a meno che non si voglia imputare per coerenza tale contraddizione anche al Diritto Positivo.
Ancora un mero dato di tipo non valoriale ma empirico: se come sappiamo per sostenere un onnivoro per 1 anno è necessaria una superficie 18 volte maggiore di quella richiesta per sostenere un Vegano per un anno e’ chiaro matematicamente che le uccisione involontarie da pratiche colturali di quest ultimo sono 18 volte inferiori (senza conteggiare le successive uccisioni volontarie dell onnivoro degli animali allevati visto che mangiare animali non umani non è necessario alla sopravvivenza ma riguarda questioni di gola, quindi la sfera del superogatorio)
2) L argomento dello sfruttamento umano. Considerando che il 40% dei terreni coltivati ( e che nel 2050 sara’ del 60% se si continuera’ con l alimentazione carnea) è destinato all alimentazione animale, che molto spesso queste coltivazioni vengono imposte dai governi occidentali ai paesi del sud del mondo per fornire carne all opulento occidente ( sempre piu’ colpito da tutte le patologie derivanti da un alimentazione di prodotti di origine animale come patologie cardiovascolari, diabete tipo 2, cancro colon retto, sindrome metabolica, obesita’) sembra curioso che si punti su questa argomentazione . In ogni caso l argomento è viziato da una fallacia, del post hoc ergo propter Hoc; se esiste uno sfruttamento delle popolazioni del sud del mondo non è certo per la proposta etica vegana , ma del sistema liberista capitalistico senza regole che permette alle multinazionali di operare attraverso la sopraffazione dei piu’ vulnerabili. Il veganesimo combatte tutto questo e da sempre propone modelli di societa’ diversi , compatibili con una popolazione in continua crescita, su un pianeta che non è piu’ in grado di sostenere modelli che propongono un consumismo senza limiti e volto a generare sempre nuovi bisogni destinando cosi’ l animo umano ad essere sempre infelice, allargando la forbice del ricchi e dei poveri, caricando le generazioni future di enormi problemi di convivenza, e facendone pagare il prezzo maggiore ai piu’ vulnerabili tra i vulnerabili, gli animali non umani.
Cordialita’
Dott Bodrero Fabio Valerio
Buon giorno a lei, ringraziandola per la definizione precisa dei principi vegani, che penso condivisi da tutti gli aderenti alla scelta filosofica e sociale che vi distingue.
Resta il fatto che i certificatori, nell’onere pratico di marchiare e certificare alimenti confacenti a tali principi, devono e dovranno sostenere per essere credibili ai consumatori che acquistano alimenti, prodotti ed oggetti vari garantiti senza contaminazione animale volontaria ed involontaria.
Il quesito di Marta Ferrari è solo un piccolo esempio, ma un grande problema per un soggetto certificatore.
Infatti queste sfumature di sensibilità, come quelle della qualità intrinseca dell’alimento che segnalo da tempo, restano di difficile gestione, se non si definiscono ufficialmente (non so’ chi potrebbe o dovrebbe farlo), le regole oggettive e concrete di prodotto vegano, con un disciplinare univoco di difficile gestazione.
E importante che ci siano regolamentazioni uniche e soprattutto uguali in tutta europa che possano garantire la qualità che solo un prodotto vegan può avere. Speriamo che nel parlamento Europeo si possa raggiungere un accordo univoco.
Più che di qualità direi caratteristica, oppure categoria di alimenti.
Mentre per il concetto di qualità servono diversi elementi di giudizio tecnico analitico ed organolettico, della pura e semplice appartenenza alla categoria vegetale non inquinata da alimenti di origine animale.
Sull’accordo univoco penso proprio che ogni marchio vorrà differenziare e caratterizzarsi con diversi livelli di purezza vegana, ma anche e soprattutto di qualità alimentare.
Ho acquistato dei biscotti con il bollino “Vegan ok”. Nella lista degli ingredienti compare la dicitura: “può contenere tracce di latte e uova”. Come è possibile ciò? Perché dichiarare che è un prodotto vegano quando potrebbe contenere alimenti di origine animale?