Gli adolescenti inglesi attingono circa due terzi delle calorie quotidiane da alimenti ultra processati (o UPF da Ultra-processed Foods), e il consumo è relativamente stabile da oltre dieci anni, con una lieve tendenza alla diminuzione, peraltro molto influenzata da fattori sociali. Forse, però, anche questo spiega l’aumento generalizzato del disagio delle generazioni più giovani. Perché gli ultra processati non fanno solo acquistare peso: probabilmente modificano l’umore attraverso il microbiota intestinale e l’asse intestino-cervello.
La rilevazione nel Regno Unito
In numerosi Paesi del mondo, gli alimenti ultra processati costituiscono ormai più della metà delle calorie quotidiane. E la situazione peggiore è quella tra i più giovani, che in alcuni casi arrivano a consumare l’80% di UPF nella loro dieta quotidiana. Parimenti nel Regno Unito le abitudini sono di questo tipo anche se, negli ultimi anni, si registra una lieve diminuzione. Fatto che segnala, se non altro, un aumento di consapevolezza, e autorizza a sperare che la situazione possa migliorare. Questo emerge anche da un’indagine svolta dagli epidemiologi di Cambridge e pubblicata sullo European Journal of Nutrition, nella quale si sono analizzati i dati di tremila ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni contenuti negli archivi del grande studio di popolazione chiamato UK National Diet and Nutrition Survey (NDNS), relativi al periodo 2008-2009, messi a confronto con quelli di altrettanti coetanei del biennio 2018-2019.
Divari di classe e di etnia
Il risultato è stato che si è passati dal 68 al 63%, con un valore medio del periodo del 66%. Verificando le sottopopolazioni, sono emerse le differenze tra gli adolescenti che crescono in famiglie svantaggiate rispetto a quelli che appartengono a famiglie benestanti: 68,4 versus 63,8%, così come differenze tra etnie. Appartenere a un gruppo di non caucasici è infatti meglio, da questo punto di vista, probabilmente perché nelle minoranze sono più forti le tradizioni culinarie, che prediligono sempre cibi cucinati. In quel caso, le percentuali sono infatti del 59%, contro il 67,3% dei pari età caucasici.
Ancora, a conferma del fatto che i più grandi consumatori di UPF sono i ragazzi che provengono da zone meno ricche, c’è un divario tra il nord del Paese, tradizionalmente più povero, e il sud, compresa l’area metropolitana di Londra: in quel caso le percentuali rispettive sono pari al 67,4% e al 64,1%. Infine, crescendo si impara a mangiare meglio, e questa è una buona notizia anche se, d’altro canto, mette in rilievo, ancora una volta, la vulnerabilità dei più piccoli. Al di sotto dei 18 anni, infatti, si arriva al 65,6%, ma dopo la maggiore età ci si ferma al 63,4%. Come si vede, le percentuali non scendono comunque praticamente mai al di sotto del 60%: un numero che non può che far riflettere, anche sulle strategie migliori per aumentare la qualità dell’alimentazione in quella fascia di età.
Gli ultra processati sono ansiogeni?
Tra le motivazioni per aiutare i ragazzi a mangiare meglio, ce n’è anche una di cui si parla poco: quella relativa al disagio. Gli effetti di un consumo elevato e costante di UPF potrebbero infatti spiegare, almeno in parte, l’aumento molto evidente di disturbi dell’umore tra i più giovani, esploso dopo la pandemia. E il motivo è da ricercare nei rapporti che intercorrono tra intestino e cervello, attraverso il cosiddetto asse, una linea di scambio di messaggi chimici nei due sensi che ha al centro la serotonina, neurotrasmettitore cruciale nella depressione e nell’ansia, che viaggia probabilmente attraverso il nervo vago, e che risente delle modifiche che, per i più vari motivi, intervengono nel microbiota intestinale.
La possibilità che gli UPF alterino la flora residente e, in questo modo, l’umore, è stata vagliata da un gruppo di ricercatori del Department of Biological Science Laboratory of Cardiovascular Physiology del Campus Morro do Cruzeiro di Ouro Preto, in Brasile, che hanno lavorato su modelli animali. Come riportato su Biological Research, gli animali sono stati alimentati con una dieta con l’11% di grassi, valore considerato nella norma, oppure con una con il 45% di grassi per lo più animali o saturi, cioè simili a quelli che si ritrovano negli UPF, per nove settimane. Durante tutto il periodo gli autori hanno raccolto e analizzato le feci, e alla fine hanno effettuato alcuni test comportamentali.
I risultati
Il risultato è stato che i topi che avevano avuto la dieta con i grassi avevano avuto anche un cambiamento evidente del microbiota, con un aumento di specie negative come i Firmicutes, e una diminuzione di quelle positive come i Bacteroides, e una generale diminuzione della diversità di specie presenti. Inoltre, avevano avuto anche modifiche nell’espressione di alcuni geni che regolano la sintesi e il rilascio della serotonina, fatto che potrebbe spiegare quanto si è poi osservato nelle prove comportamentali. Gli animali alimentati con i grassi hanno infatti mostrato comportamenti tipicamente associati all’ansia. In pratica, hanno sottolineato i ricercatori, gli UPF lasciano la loro “firma” nei geni della serotonina. Mangiare sano del resto si sa: fa bene anche all’umore.
© Riproduzione riservata. Foto: Depositphotos.com, AdobeStock
Siamo un sito di giornalisti indipendenti senza un editore e senza conflitti di interesse. Da 13 anni ci occupiamo di alimenti, etichette, nutrizione, prezzi, allerte e sicurezza. L'accesso al sito è gratuito. Non accettiamo pubblicità di junk food, acqua minerale, bibite zuccherate, integratori, diete. Sostienici anche tu, basta un minuto.
Dona ora
Giornalista scientifica