L’Italia è il Paese dei grandi produttori di olio extra vergine di oliva ma anche dei grandi truffatori che da decenni lucrano sulle frodi. Tutti lo sanno e Il Fatto alimentare ha sempre denunciato le furberie delle aziende. Per questo motivo riteniamo che il New York Times abbia ragione quando accusa di mediocrità una parte considerevole dell’olio italiano venduto in America. Anche Paolo Berizzi in un articolo su La Repubblica del 31 gennaio 2014 commenta la vicenda degli Stati Uniti, ma con argomenti che anziché chiarire la vicenda confondono le idee. Berizzi dice che: “In Tunisia un chilo d’olio costa 0,23 centesimi e che il prezzo medio di un chilo di olio finto “made in Italy” è 3-4 euro, i taroccatori ci tirano su un mille per cento”. Prosegue sostenendo che l’olio spagnolo, greco e tunisino viene manipolato e reimbottigliato in modo fraudolento per farlo diventare olio extra vergine italiano. L’ultima nota bizzarra riguarda le adulterazioni portate avanti dalle grandi multinazionali che operano in Italia, realizzate aggiungendo olio di semi e olio di sansa! Si tratta di tre concetti interessanti ma privi di fondamento.
Cominciamo dal primo. Sostenere che un chilo di olio di oliva in Tunisia costa 0,23 centesimi è sconcertante. Il borsino dell’olio indica un prezzo dieci volte superiore, e a questo punto è legittimo chiedresi se Berizzi, preso dalla foga di scrivere, non abbia sbagliato i calcoli. Purtroppo lo stesso errore viene proposto in un articolo del 23 dicembre 2011 dove però si parla di 0,25 centesimi euro .
Sul secondo punto non si può lasciare intendere che una quantità considerevole dell’extra vergine imbottigliato in italia e firmato dai grandi marchi italiani sia olio spacciato come finto “made in Italy”. Basta leggere l’etichetta per rendersi conto che sulle bottiglie è indicata l’origine , anche se spesso con caratteri tipografici minuscoli. In genere si tratta di miscele composte da oli italiani, spagnoli e greci, oppure di olio europeo miscelato con olio extra europeo (come quello tunisino). Nessun mistero dunque, basta leggere l’etichetta senza fermarsi alle bandierine o ad altri artifici grafici che possono ingannare.
Anche la teoria di Berizzi sulle adulterazioni dell’extra vergine realizzate con olio di semi e di sansa è strana. Spacciare oli di semi colorati con clorofilla per extra vergini era una truffa in voga in Italia negli anni ’80, oggi assolutamente residuale in Europa. Non dappertutto è però così. In Usa e in Cina dove esistono norme meno stringenti rispetto a quelle europee, stanno scoprendo questo genere di frodi, come dimostra l’ultimo caso segnalato a Taiwan poche settimane fa. Lo stesso vale per definizioni più o meno fantasiose, come ad esempio “pure olive oil”, che non sono tollerate nell’UE. Si tratta di mercati con molte possibili zone d’ombra che spesso vengono sfruttate da aziende italiane e di altri paesi, a fini speculativi. Adesso però la grande truffa in atto nei paesi del bacino del Mediterraneo riguarda l’olio deodorato ed è strano che non se ne parli nell’articolo.
Non è la prima volta che Berizzi azzarda teorie bizzarre sulle truffe alimentari, qualcuno ricorda il legno delle casse da morto utilizzato in Romania come combustibile per i forni destinati a cuocere il pane surgelato da vendere nei supermercati italiani.
Roberto La Pira
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Ma com’è possibile, vendere un chilo d’olio a 3 euro quando se si vuole veramente ottenere olio con delle olive italiane (siciliane) tra raccolta, frantoio e tutto il resto non si può vendere a meno di 5 euro bottiglia da 0,75?
Evidentemente il teorico Berizzi dovrebbe tornare a scuola più che scrivere articoli. L’olio extravergine d’oliva come molti altri prodotti è quotato in tutte le borse mondiali in tonnellate (unità di misura riconosciuta a livello mondiale) ed a prezzi che oscillano fra € 3.300/tm per un 100%ITALIANO fino ad € 2.300/tm per uno di ORIGINE U.E. La conversione del prezzo in Kg. è rispettivamente di € 3,10/kg ed € 2,3/kg. Un errata corrige di Repubblica no ?
tutto condivisibile…forse…tranne il fatto che in questo momento vedrei l’urgenza altrove…..non in un articolo sulla repubblica che chissà quanti leggeranno e comprenderanno….il problema vero è che a Bari si abolisce il corso di olivicoltura e non se ne parla, non abbastanza insomma….dovreste scrivere di questo fino alla nausea, invece…..
Il problema è che a scrivere di alimentazione e di alimenti per i lettori ignari della materia , dovrebbero essere articolisti , se non proprio tecnicamente esperti, almeno edotti e soprattutto capaci di verificare seriamente la correttezza e le fonti dei propri scritti che vanno ad influire sulla fiducia e gli orientamenti di consumatori ancor meno esperti, ma incolpevoli. E quindi con grave danno. Ritengo che La Pira stia facendo un’opera critica meritevole in questo senso, e bisognerebbe invitare i direttori dei maggiori giornali a verificare la professionalità dei propri articolisti per migliorare la qualità dell’informazione.
Quanto al “made in..” è fondamentale distinguere il “saper fare..” che caratterizza l’eccellenza del prodotto italiano comprensivo del saper scegliere con sapienza anche fra materie prime di origine diversa. In un mercato globale l’origine non ha più senso, a meno di ragionare in modo autarchico. Ove poi si ritenga, penso a torto, che il prodotto nazionale sia per definizione della migliore qualità, ci si orienti su prodotti di nicchia con materie prime di sicura origine nazionale dichiarata . Non si intaseranno così le etichette di informazioni poco utili che confondono i consumatori.
In un mercato globalizzato dove le diverse tipicità, vedi il colore, il profumo, la forma, il sapore , vengono uniformate mediante procedimenti industriali, e/o utilizzazione di sementi identiche e uniformate, allora si, l’origine non ha senso.
L’importante in tal caso è il saper fare, poi il sapore, si tratti di una grossa e saporita oliva greca, oppure una più piccola e saporita oliva italiana o spagnola, daranno vita allo stesso olio con stesse proprietà organolettiche, nutritive , di profumi e sapore , sarà sempre lo stesso no???
come la Coca Cola …. mahhhh
Basterebbe rivolgersi anche ai piccoli produttori come quelli del pluripremiato olio di Chiaramonte Gulfi.