La tassa sul cibo spazzatura e sugli alimenti ricchi di grassi, zuccheri per essere efficace deve provocare un incremento del prezzo di almeno il 20%. Lo sostiene Oliver Mytton, esperto di sanità pubblica dell’Università di Oxford, sul British Medical Journal, in un articolo che sintetizza il risultato delle sue analisi sulle diverse esperienze internazionali, in vista del meeting di Ginevra, che si svolgerà dal 21 al 26 maggio e che avrà al centro della discussione questi temi, nell’ambito della sessantacinquesima World Health Assembly.

 

Da quando è apparso in modo evidente che sovrappeso e obesità costituiscono un pericoloso fattore di rischio per una popolazione destinata a una vecchiaia sempre più costellata di malattie croniche, i governi e le autorità hanno iniziato a capire che investire in salute è più conveniente rispetto alla prospettiva di curare le malattie croniche correlate all’eccesso di cibo.

 

Le grandi campagne per l’educazione alimentare sono però costose e richiedono anni prima di sortire effetti misurabili. Un riferimento interessante è quello della tassazione del tabacco e dell’alcol che ha portato a risultati positivi nel medio lungo periodo. Pe questo motivo la riflessione – e in certi casi la scelta – di alcuni Stati è stata quella della tassazione di alcune categorie di alimenti.

 

Ma il punto è: quali sono le caratteristiche che deve avere una tassa sul cibo per essere veramente efficace e per essere accettata dalla popolazione? Che cosa funziona (e lo si può dimostrare con i numeri) e che cosa no?

 

Mytton chiarisce l’opportunità di applicare l’eventuale tassa a qualunque tipo di alimento che possa essere considerato non salutare. L’obiettivo deve essere quello di creare un fondo in grado di fronteggiare anche malattie diverse dall’obesità. Ma l’aspetto più interessante è che osservando quanto è successo in alcuni Paesi, si è notato che a volte la tassazione su un certo alimento o bevanda si rivela un vero fiasco, perché al di sotto di un certo limite. In questi casi i consumi si spostano da ciò che è diventato più caro a qualcosa di simile che ha mantenuto il suo prezzo o che risulta conveniente.

 

I tre ambiti dai quali si possono elaborare delle conclusioni scientificamente fondate sono:

 

1. Gli esperimenti spontanei, cioè quelle iniziative che, sorte per verificare un’idea in un ambito del tutto circoscritto, possono fornire qualche indicazione. Gli unici due studi che hanno verificato gli esiti di una tassazione sui soft drink sono statunitensi, ma in entrambi i casi l’aumento del prezzo è stato troppo basso, compreso tra l’1 e l’8%, per poter essere correlato a qualche conseguenza sul peso.

 

Una ricerca analoga compiuta in Irlanda ha invece mostrato che a una tassazione dell’11% (sempre sulle bevande gassate e zuccherate) corrisponde una riduzione nel consumo specifico del 10%, ma non è stato verificato l’eventuale effetto sulla salute. In generale è emersa solo un’associazione piuttosto debole tra tassa sul cibo e peso della popolazione, con effetti più marcati nelle fasce di popolazione più disagiate e sui ragazzi. Probabilmente – spiega Mytton – ciò è dovuto al fatto che le tasse sono sempre state troppo timide.

 

2. Studi controllati. In questo caso l’indicazione è il risultato di calcoli effettuati sulla base di quanto succede in condizioni predeterminate. Questo approccio ha il vantaggio di essere più facile da interpretare, ma anche il grande limite di costituire una realtà artificiosa, che costringe il partecipante a comportamenti spesso diversi da quelli della vita reale.

 

Così, per esempio, una tassa del 35% applicata in una mensa durante un trial condotto negli Stati Uniti ha portato a una riduzione del 26% delle vendite. Ma nessuno è andato a verificare che cosa facevano i frequentatori della mensa una volta usciti, e cioè se, per esempio, compravano la stessa bevanda fuori, a un prezzo più basso.

 

3. Studi con stime basate su specifici modelli. La maggior parte degli studi dedicati alla tassa sul grasso (tax fat), afferma Mytton, è di questo tipo. Si cerca di definire quale potrebbe essere l’effetto di una certa tassa in base a calcoli matematico-economici e a sondaggi. La valutazione presenta il vantaggio di poter prendere in considerazione elementi di diversa natura, ma anche il limite di tutte le previsioni che, per quanto basate su presupposti solidi, devono poi fare i conti con la realtà.

 

Negli Stati Uniti è stato calcolato che una tassa sui soft drinks del 20% (più alta di quelle applicate finora in diversi Stati) farebbe calare l’obesità del 3,5%, e in Gran Bretagna una tassazione del 17,5% su alcuni alimenti poco sani farebbe diminuire gli infarti dell’1-3%, e i decessi di 900-2700 unità.

Tuttavia – sottolinea Mytton – è necessario tenere presente che penalizzare una categoria di alimenti potrebbe avere effetti negativi quali, per esempio, la riduzione di fibre o sali minerali o a comportamenti compensatori altrettanto nocivi di quelli che si cerca di colpire.

 

Nonostante ciò l’opinione pubblica con ogni probabilità sarebbe favorevole all’adozione di una tassazione sui cibi poco sani. Secondo un sondaggio effettuato negli Stati Uniti, una percentuale che varia dal 37 al 72% degli intervistati approverebbe una tassa sui soft drinks. Anche le aziende, che oggi strillano, sottolineando l’inutilità e la possibile perdita di posti di lavoro causata da provvedimenti del genere, si adeguerebbero come hanno fatto quelle del tabacco e dell’alcol.

 

Ciò che emerge dagli studi disponibili fino a oggi è che una tassa sul cibo dovrebbe avere almeno queste caratteristiche, per ottenere  successo:

 

  • Essere rivolta a un ampio raggio di alimenti classificati come poco salutari, anche se fino a oggi i dati più convincenti riguardano la tassazione dei soft drinks.
  • Essere almeno del 20%, per avere effetti su obesità e malattie cardiovascolari.
  • Essere unita ad agevolazioni fiscali per la vendita e il consumo di alimenti sani quali la frutta e la verdura.

 

Agnese Codignola

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