petizione 2
Il Ministero dello sviluppo economico non vuole richiedere all’UE la possibilità di mantenere sui prodotti italiani l’indicazione dello stabilimento di produzione.

Il Fatto Alimentare, Great Italian Food Trade e Io leggo l’etichetta da mesi chiedono al Ministero dello sviluppo economico di mantenere sui prodotti italiani l’indicazione della sede dello stabilimento di produzione sull’etichetta. La ministra Federica Guidi che dovrebbe inoltrare la richiesta all’UE, ha finora trascurato questa ipotesi, anche se le più importanti catene di supermercati, diverse aziende italiane, il Movimento 5 Stelle e lo stesso Ministro delle politiche agricole Maurizio Martina (*) hanno manifestato più volte – e in modo anche vivace – i vantaggi economici che ne deriverebbero. La proposta di mantenere la sede dello stabilimento di produzione   sull’etichetta dei prodotti alimentari raccoglie consensi anche al Parlamento europeo, dove il 30 gennaio l’eurodeputata Elisabetta Gardini ha depositato un’interrogazione alla Commissione europea, con richiesta di risposta scritta, per evidenziare i rischi di confusione per i consumatori. “Considerato che il regolamento UE 1169/2011 non prevede l’obbligo di indicare il sito di produzione di un prodotto alimentare – si legge nell’interrogazione della  Gardini – e che tale mancanza ha suscitato vive inquietudini tra i produttori e vibrate proteste da parte dei consumatori di numerosi Stati membri, si chiede alla Commissione di fornire chiarimenti sull’obbligo di indicare il paese di origine degli alimenti, in tutti casi nei quali l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore i consumatori.”

La questione è tutt’altro che teorica, c’è la  concreta possibilità che gruppi multinazionali del settore alimentare trasferiscano le produzioni  italiane all’estero senza informarne i consumatori, che verrebbero ingannati dalla presenza sulle etichette di marchi conosciuti legati al nostro territorio.  Una multinazionale che ha acquistato un famoso marchio di una mozzarella italiana, di un olio, di una pasta e decide di trasferire la produzione in Polonia, può farlo benissimo senza indicare sull’etichetta lo stabilimento di produzione, ingannando  i consumatori convinti di acquistare un alimento prodotto in Italia.

petizione 4
C’è la possibilità che gruppi multinazionali trasferiscano le produzioni italiane all’estero, che verrebbero ingannati dalla presenza sulle etichette di marchi conosciuti

Se non viene modificato l’attuale regolamento impossibile identificare l’origine territoriale degli alimenti  confezionati dalle catene di supermercati. Secondo la nuova legge i supermercati possono limitarsi a riportare sulle etichette l’indirizzo della sede legale.  A questo punto  capire se l’olio venduto con il marchio della catena di supermercati italiani è stato  imbottigliato in un oleificio spagnolo o se il latte è prodotto in Francia o in Germania è davvero complicato.

Per fortuna in Italia ci sono catene come Conad che nei giorni scorsi ha comprato pagine di pubblicità su diversi quotidiani per dire che manterrà  nei prodotti a marchio le indicazioni dello stabilimento di produzione e altre a partire da Coop, Selex, Unes, Simply, Auchan ed Eurospin che hanno confermato questa intenzione. Altri non hanno preso posizione. L’indicazione non è secondaria, ci sono alcuni consumatori che scelgono di comprare solo prodotti del Sud Italia per avvantaggiare e sostenere le imprese meridionali.

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L’acquirente deve sapere se una pizza Margherita a marchio Buitoni è ‘Made in Germany’, se un Cornetto Algida è ‘Made in UK’, se un olio Bertolli è imbottigliato in Spagna

In questa vicenda c’è un altro elemento importante che forse è sfuggito alle multinazionali del cibo. Il  nuovo regolamento 1169/2011  entrato in vigore il 13 dicembre 2014 prevede l’obbligo di indicare l’origine del prodotto – vale a dire, il luogo dell’ultima trasformazione – “nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nel­l’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza” (articolo 26.2.a).

Questa norma ha la precisa funzione di tutelare i consumatori rispetto alle imprese che cecrano di confondere le idee sull’origine. Quando un’etichetta contiene un marchio che suggerisce la provenienza da un certo paese ( pizza napoletana, spaghetti alla bolognese, mozzarella campana, pasta italiana…)  ma lo stabilimento di produzione è situato in Francia, Spagna, Polonia, Germania….  il consumatore ha il diritto di saperlo. In altre parole l’acquirente deve sapere se una pizza Margherita a marchio Buitoni è  “Made in Germany“, se un Cornetto Algida è “Made in UK” se un olio Bertolli è imbottigliato in Spagna, se un Bacio Perugina viene prodotto in Belgio, se un dado Star  è confezionato in Portogallo.  Si tratta di un particolare sottovalutato dai colossi alimentari che hanno deciso di traslocare la produzione dall’Italia all’estero. Questi gruppi che intendono utilizzare marchi italiani sulle etichette di  prodotti realizzati all’estero devono precisare sulla confezione in modo chiaro   “Made in Spain”, “Made in France”, “Made in Poland” o”Made in Germany” in linea con quanto previsto dall’articolo 26.2.a. La norma  europeo 1169 entratq in vigore il 13 dicembre 2014, ha integrato la  precedente direttiva 2000/13/CE,  per quanto riguarda questo aspetto.

In  attesa che la ministra Federica Guidi decida di notificare all’UE la richiesta per il mantenimento della norma che a partire dal 1992 ha prescritto in Italia la citazione in etichetta della sede dello stabilimento, i consumatori italiani possono iniziare a tutelarsi pretendendo dalle multinazionali del cibo il rispetto di questa regola.

(*) Il Ministro per le Politiche Agricole Maurizio  Martina lo scorso 17 gennaio ha ribadito l’opportunità di dare la possibilità ad ogni Stato membro (art. 39 regolamento 1169/2011), di rendere obbligatoria l’informazione dello  stabilimento di origine sull’etichetta anche per tutelare i consumatori da possibili frodi.

Dario Dongo e Roberto La Pira

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Per rendersi conto di quanto sia diffusa la moda dei colossi industriali di comprare marchi italiani del settore agro alimentare che poi cercano in qualche caso di delocalizzare all’estero. Basta rileggere le cronache degli ultimi mesi.

Nestlé, marchio Buitoni. Contorni sfuocati sul destino dello stabilimento di Sansepolcro (AR), mentre il colosso svizzero concentra in Germania gli investimenti sulla produzione di pizze surgelate con nomi che – giusto a proposito – richiamano la Toscana.

Nestlé, marchio Perugina, stabilimento di San Sisto (PG), “sottoscrizione del contratto di solidarietà avvenuta lo scorso mese di agosto.” [210 addetti, ndr]. L’intervento di Carla Spagnoli, presidente onorario Movimento per Perugia, il 29.10.14, contro Nestlé: “Cosa volete farne della Perugina? […] Ormai è sotto gli occhi di tutti il disimpegno della Nestlé e la sua volontà di non puntare sulla Perugina: ricordiamo ancora la vergognosa vicenda dei Baci “Lanvin” venduti in Francia, dove ogni riferimento al marchio “Perugina” e allo stabilimento di San Sisto era stato eliminato, quasi fosse una vergogna e non un vanto da mostrare in tutto il mondo!”

Unilever, marchio Algida, a Caivano “Smantellamento industriale: si apre un caso nella grande fabbrica di Caivano produttrice del famoso gelato. Lungo stop in cassa a zero ore, da novembre a gennaio. Parte delle produzioni già dirottate in Inghilterra e in Germania. Una delle eccellenze campane, il grande stabilimento Algida, chiuderà per due mesi di fila: mille lavoratori in cassa integrazione a zero ore. E adesso la sensazione è che il mitico cornetto stia per prendere la strada del nord Europa, col risultato che l’Italia rischia di rimanere a bocca asciutta.”

Lactalis, marchi Galbani e Cademartori (oltre a vari altri, a partire da Parmalat). A febbraio 2014, chiusura dello stabilimento Galbani a Caravaggio (BG) e del reparto del confezionamento gorgonzola Cademartori d’Introbio in Valsassina (LC) .

Deoleo, marchi Carapelli e Sasso. Chiusura dello stabilimento di Inveruno, cassa integrazione e licenziamenti a Tavernelle Val di Pesa.

Campofrio, marchio Fiorucci, salumificio di Pomezia. Cassa integrazione per 250 lavoratori, a seguire licenziamento collettivo di 175 addetti, gennaio 2015.

Gallina Blanca, marchio Star, stabilimento di Agrate, giugno 2013. “A preoccupare è però il destino di una fabbrica che ha scritto la storia dell’industria alimentare italiana ma che oggi lotta contro il declino. […] In via Matteotti ad Agrate lavorano 390 persone: 180 impiegati, 210 operai. Occupano neppure 40mila dei 220 mila metri quadri di capannoni. Trenta anni fa c’erano più di 3.000 persone a preparare dadi, sughi, pelati, infusi, riso e pasta pronti, pizze, tortellini, olio, margarina, polenta, orzo, caffè, budini. Oggi da via Matteotti escono solo dadi, infusi, sughi pronti, tè e prodotti per la prima infanzia. Il resto si produce fuori.”

 

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Kat
Kat
2 Febbraio 2015 10:53

Se davvero si tenesse al “Made in Italy” basterebbe fare una legge dove un azienda che produce un prodotto col nome italiano debba, se distribuisce in Italia, inserire sulla copertina a caratteri grandi il nome del paese di produzione. Vorrei vedere quanti italiani comprerebbero un formaggio Galbani con la scritta: Prodotto in Ucraina.
Basterebbe questo a farli desistere dal trasferirsi.

Dario
Dario
2 Febbraio 2015 16:09

Grazie Kat, è proprio ciò che sosteniamo infatti. È ciò deve valere nell’intera Europa, per tutelare sia il ‘Made in … (Stato membro)’ rispetto a ogni contraffazione, sia i consumatori altrimenti facile preda d’inganni vari.
Dario

marco
marco
2 Febbraio 2015 23:12

Buonasera, e la Legge 4/2011 art. 4…?… Abrogata anch’essa inesorabilmente?
Ai commi 1 e 2, che non modificano alcuna disposizione se non un semplice riferimento al dlgs 109/92, sono chiari nell’ obbligo di indicazione per i prodotti trasformati o meno… Anche questa disposizione è superata…?
Cordiali saluti…e conplimenti per il sito…
Ps: ricordiamoci che mancano ancora le sanzioni al reg 1169/2011 quindi non stupiamoci se manca una norna…purtroppo

Virginia
Virginia
3 Febbraio 2015 13:25

Buongiorno,

è come per il latte Selex, costa 5 cent in meno del latte parmalat (sempre in bottigli di plastica), ma ho preso il latte Parmalat confezionato in Italia, è riportato lo stabilimento, che il latte Selex confezionato in Francia.
Ultimamente al super controllo sempre lo stabilimento di produzione e prendo sempre alimenti fatti in Italia. Un motivo logico se voglio tutelare la mia nazione e la ns economia. Perchè alla fine di questo si tratta.

vincenzo
vincenzo
3 Febbraio 2015 14:16

Se i consumatori boicottassero i prodotti senza l’indicazione dello stabilimento di produzione le cose andrebbero rapidamente a posto da sole.

Valter63
Valter63
Reply to  vincenzo
3 Febbraio 2015 18:12

Concordo con Vincenzo, basta boicottare, quando si ritroveranno gli scafali pieni di prodotti invenduti si renderanno conto…almeno spero..

Giovanni
Giovanni
4 Febbraio 2015 10:42

E’ un’assurdità, non riesco a capire nemmeno come si possa arrivare a questo. Io ho il diritto di sapere dove viene prodotto un alimenti (anche se non è una garanzia).
Però mi preme sottolineare che è inutile la lamentela che la Nestlè sposta le produzioni o la Uniliver o la Lactalis, ragazzi l’errore è stato vendere l’Azienda. Ora Perugina non è più l’azienda del cioccolato di Perugia, è un marchio di un’azienda svizzera e loro possono decidere di non investire più nel nostro paese, hanno il diritto di farlo. Noi però abbiamo il DIRITTO di sapere se il prodotto Buitoni o Perugina è fatto in ITalia o NO.

mario gasbarrino
mario gasbarrino
4 Febbraio 2015 13:01

Condivido ed apprezzo la campagna portata avanti anche da Il Fatto Alimentare sulla importanza dell’indicazione dello stabilimento di produzione. Lungi da voler rivendicare primati su una materia che ci deve vedere tutti impegnati ed allineati nella difesa del Made in Italy, ricordo, solo per onesta’ intellettuale, che la catena di supermercati Unes è stata la prima azienda a comprare 3 pagine di giornale (dicembre 2014) su 3 quotidiani nazionali per far sentire la nostra voce. C’è di più, da due anni a questa parte, e quindi in periodo non sospetto, a fianco a tutti i nostri prodotti a marchio mettiamo uno stopperino con la bandiera del luogo di produzione, allo scopo di valorizzare le aziende italiane che producono o confezionano in Italia, senza pero’ esimerci, per trasparenza, di indicare anche altre provenienze ove questo avvenisse. In più fra meno di un mese, abbiamo modificato il lay out dell’etichetta prezzo a scaffale per riportare, di fianco al prezzo, alla descrizione ed altre informazioni anche il luogo di produzione dei nostri prodotti a marchio.
Tutto questo permetterà al cliente di scegliere il prodotto da acquistare in completa trasparenza, ma farà un baffo, è difficile ma doveroso ammetterlo, a tutte le multinazionali che si sono comprati prestigiosi marchi italiani e che non vedono l’ora che passi questa legge per delocalizzare la produzione in paese a più basso costo, contribuendo cosi’ alla desertificazione industriale di questo paese (che non è la Grecia, ma che rischia di avvicinarvisi molto se ciò avviene).

Il tutto nel totale disinteresse della classe politica, che non si rende conto delle conseguenze nefaste di un simile provvedimento. Il ministro dello sviluppo economico Federica Guidi ha promesso di interessarsene, ma finora ha solo annunciato la volontà di aprire un tavolo di confronto ??!!!
Continueremo a lottare, per il bene del nostro paese più che per l’interesse di bottega (come distributore una legge che mi permette di comprare dove voglio senza dover indicare il luogo di produzione sarebbe molto meglio nel breve, ma il paese e l’economia va a rotoli, e con esso anche il futuro del commercio )

Mario Gasbarrino
ad di Unes e U2 supermercati

LUCA RISECCHI
LUCA RISECCHI
19 Febbraio 2015 08:28

Buongiorno,
vorrei spezzare una lancia a favore delle imprese alimentari che producono prodotti pivate labels.Molti clienti non vogliono l’inserimento dello stabilimento di produzione come da Reg 1169/11. Molte etichette sono già state stampate con la nuova regola e per ridurre i costi di stampa ne sono state stampate quantità che vanno oltre il bisogno immediato. Nel caso in cui il Ministero si decida di inoltrare la notifica all’UE e che torni l’obbligo di inserire il prododuttore in etichetta, le etichette senza tale dicitura ormai già stampate che fine dovranno fare? Sono a norma del Reg 1169/11 ma potrebbero non esserlo più; ci sarà un nuovo periodo di transizione? Vorrei ricordare che tutta questa confusione normativa non fa certo bene all’operatività delle imprese che sono spesso messe in difficoltà dalle normative fumose ed approssimative.
Ringraziando per l’attenzione, porgo cordiali saluti
Luca Risecchi