A differenza di ciò che avviene con la carne, nella lavorazione del pesce gli scarti sono enormi: in alcuni casi – come per certi tipi di filetto – si arriva quasi al 70% di scarto rispetto al peso. Questa è una situazione ormai inaccettabile e da correggere prima possibile, almeno in Europa. Per sperimentare nuove e più sostenibili metodologie di lavorazione, alcune università nordeuropee insieme ad alcune aziende svedesi (in particolare la Sweden Pelagic e la Alfa Laval), grazie ai fondi del programma europeo Horizon 2020, hanno dato via al progetto quadriennale WaSeaBi, che è partito dalla ricerca di base ed è già arrivato alla produzione, attiva in alcuni stabilimenti pilota. I principi su cui si basa e i primi risultati sono appena stati illustrati in uno studio pubblicato su Food Chemistry.
Finora – e qui sta l’errore fatale – tutto ciò che non veniva utilizzato per l’alimentazione umana era destinato all’alimentazione animale (nella migliore delle ipotesi), ma più spesso smaltito tutto insieme, senza differenziare tra le varie parti, e senza ulteriori impieghi. Ciò spiega perché la percentuale media di scarti sia ancora oggi superiore al 50%, con punte del 70%. Per questo i ricercatori della Chalmers University of Technology hanno deciso di modificare il modo in cui vengono separati gli scarti e, in particolare, di suddividerli in frazioni, ciascuna delle quali con caratteristiche specifiche e, di conseguenza, diverse possibili destinazioni. Negli scarti da destinare al riutilizzo ci sono le lische e le teste, ricche di proteine e fibre muscolari che possono essere trasformate in macinati di pesce, per esempio per la produzione di nugget da servire nelle scuole e nelle mense, e in farine e basi proteiche. Poi c’è la parte della pancia e degli intestini, particolarmente ricca in omega-3 e altri grassi che possono essere impiegati per la produzione di oli. Infine ci sono le pinne caudali, che contengono molta pelle, ossa e tessuto connettivo e sono quindi adatte alla produzione di collagene marino, un ingrediente prezioso, usato sia nell’industria alimentare che in quella farmaceutica e quella cosmetica.
Se fin dalle prime fasi della lavorazione si separano le diverse parti, si può recuperare praticamente tutto, e i primi risultati ottenuti dalla Sweden Pelagic di Ellös, nell’isola svedese di Orust, mostrano che non solo questo approccio è sostenibile, ma anche molto redditizio, una volta entrato a regime. Secondo le stime, infatti, a fine 2022 l’azienda avrà prodotto 2-300 tonnellate di carne macinata dai nuovi tagli, e la quantità dovrebbe aumentare l’anno successivo.
Se si rapportano questi numeri alla produzione europea si capisce che cosa ci sia in gioco: nell’Unione europea ci sono circa 122mila persone impiegate nella lavorazione del pesce, che frutta circa 28 miliardi di euro all’anno, a fronte di circa 5,1 milioni di tonnellate di pesce pescato, mentre gli sprechi ammontano a 1,5 milioni di tonnellate. Solo in Svezia, si stima che ogni anno vi siano tra le 30mila e le 60mila tonnellate di sprechi derivanti dal pesce, un quantitativo che, in peso, è da 35 a 70 volte la quantità di merluzzo pescato. Tutto ciò sembra paradossale, in un momento di crisi alimentare mondiale, e lo era anche prima che le conseguenze della guerra in Ucraina si facessero sentire. Più che mai ora, è giunto il momento di modificare comportamenti e prassi nati decenni fa, in una situazione globale molto diversa da quella attuale, e il progetto WaSeaBi indica come fare.
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Giornalista scientifica