
Secondo quasi tutti gli studi, in molti paesi oltre la metà delle calorie proviene ormai da alimenti ultra processati o UPF (da ultra processed foods), con conseguenze sulla salute e sull’ambiente in gran parte negative. Ma qual è la quota di UPF che ogni persona realmente assume? Saperlo sarebbe importante, per intervenire su una condizione patologica esistente o per prevenirne una che potrebbe arrivare con la dieta e, più in generale, per valutare la qualità della propria alimentazione. Finora, però, non era possibile stabilirlo se non attraverso vari sistemi di raccolta dati su ciò che il singolo individuo mangiava durante la giornata, un metodo che presentava limitazioni evidenti.
Ora tutto potrebbe cambiare, grazie a una serie di biomarcatori misurabili nel sangue e nelle urine individuati da ricercatori del National Cancer Institute di Rockwell (Maryland) insieme a colleghi di diversi paesi, e illustrati in un articolo pubblicato su PLoS Medicine.
Biomarcatori degli alimenti ultra processati
Per cercare di capire se fosse possibile o meno trovare firme del consumo di alimenti ultra processati, i ricercatori sono partiti dai campioni biologici di circa 700 persone di età compresa tra i 50 e i 74 anni che erano state arruolate nell’ambito dello studio di popolazione chiamato Interactive Diet and Activity Tracking in AARP (IDATA) Study. Per tutti erano disponibili anche le risposte a questionari sulla dieta (da uno a sei per ciascuno) delle 24 ore, raccolti nell’arco di un anno. Su tutti i campioni di sangue e urine hanno dosato circa mille marcatori (con la spettrometria di massa e la cromatografia liquida) e, in base ai profili emersi, hanno ipotizzato un certo consumo di UPF (sulle calorie totali) per ciascuno dei partecipanti.

Il risultato è stato che, in media, circa metà delle calorie assunte arrivano da un UPF: una conferma di quanto emerso in numerose altre ricerche. Ma, soprattutto, il consumo di alimenti ultra processati è risultato essere associato a un pool di 191 marcatori presenti nel siero e a uno di 293 presenti nelle urine delle 24 ore. Tra quelli più rappresentati in entrambi i tipi di campioni vi erano lipidi, aminoacidi, carboidrati, xenobiotici, vitamine e cofattori, peptidi, nucleotidi e metaboliti. Applicando alcuni criteri statistici per restringere il campo, l’esito finale è stato un insieme di 28 biomarcatori del siero e 33 delle urine delle 24 ore che, confrontati con le risposte dei questionari, hanno dato responsi in linea con quanto riferito. In particolare, tre metaboliti, ossia la N6-carbossimetillisina, la S-metilcisteina-solfossido e l’acido pentoico, sono risultati essere marcatori stabili e significativi dell’assunzione di cibi ultra processati.
Le conferme
A quel punto gli autori hanno cercato una convalida ulteriore, verificando l’affidabilità del loro metodo su venti persone di età compresa tra i 18 e i 50 anni, normopeso, sottoposte a una specifica dieta presso il centro clinico del National Institute of Health. I partecipanti potevano mangiare ciò che volevano nell’ambito di una dieta con lo 0% di UPF, oppure di una con l’80% di UPF. Dopo due settimane, tutti cambiavano gruppo, mentre si sottoponevano a prelievi regolari e alla raccolta delle urine. I dati di questa sperimentazione hanno confermato che i due pool di marcatori sono rivelativi del consumo di UPF, e consentono anche di distinguere tra chi ne mangia di più e che ne mangia di meno.
Le possibili applicazioni
Se i marcatori trovassero conferme, le conseguenze potrebbero essere rilevanti, innanzitutto sugli studi. Potrebbe infatti cambiare radicalmente l’impostazione delle ricerche che, finora, si sono affidate a ciò che riferivano i partecipanti, per approdare finalmente a valori numerici oggettivi, misurabili, che prescindono da ciò che la persona ricorda. Ciò attribuirebbe alle ricerche una forza statistica del tutto diversa: potrebbe diventare molto più semplice capire gli effetti degli alimenti ultra processati, nel loro complesso o in quanto singoli alimenti (o per gruppi di prodotti). Tra l’altro, si potrebbero valutare popolazioni specifiche (per esempio gli anziani o i ragazzi) in modo assai più accurato.
Oltre a ciò, qualora il dosaggio diventasse routinario, si potrebbero impostare piani terapeutici personalizzati interamente basati sulle opportune correzioni della dieta, che – con ogni probabilità – potrebbero permettere di evitare il ricorso ai farmaci almeno nelle fasi iniziali di una certa patologia (tra quelle tipicamente associate all’eccesso di UPF).
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Giornalista scientifica
Molto interessante, speriamo gli studi proseguano ..purtroppo cibi del genere finiscono spesso nella spesa quotidiana, almeno nella mia ..pigrizia, comodità..fretta ?!