Sempre più spesso sulle confezioni dei salumi troviamo riferimenti al benessere animale, un tema che sta cuore a un numero crescente di consumatori. Le inchieste giornalistiche e i filmati che di tanto in tanto mostrano allevamenti in condizioni drammatiche, pur ammettendo che si tratti di casi isolati, come sostiene il settore, hanno sollevato un problema che tocca la nostra sensibilità: in quali condizioni vivono gli animali destinati a produrre – o a diventare – alimenti?
I requisiti di benessere animale
I requisiti che devono essere rispettati negli allevamenti sono stabiliti in linea generale da una direttiva europea, recepita dalla nostra legislazione con il D.Lgs. 146 del 2001 che garantisce un livello “minimo” di benessere: nutrimento, riparo dal freddo, assenza di mutilazioni e di altre sofferenze. Esistono poi norme specifiche per le diverse specie.
Resta il fatto che, se non consideriamo gli animali da allevamento semplici macchine per produrre cibo, ma esseri viventi con esigenze specifiche, gli allevamenti intensivi, in cui centinaia o migliaia di animali sono stipati in uno spazio ristretto, a volte anche all’interno di gabbie, non possono farci pensare ad alcuna forma di “benessere”.
Le associazioni animaliste si battono da tempo per il miglioramento di queste condizioni e l’argomento è diventato interessante anche per i produttori, perché aumenta il numero di coloro che sono disposti a pagare qualcosa in più per avere la garanzia di sostenere allevamenti più “umani”. Fare qualcosa in questo senso, e “gridarlo” sulle confezioni è quindi una buona idea dal punto di vista commerciale.
I salumi con certificazione biologica – per esempio a marchio Pedrazzoli-Primavera, Fumagalli, Golfera e Citterio, ma anche Bennet e Carrefour – sono prodotti secondo un protocollo che tiene conto del benessere animale e prevede anche la possibilità di uscire all’aperto. A parte le linee bio, però, diversi marchi associano ai salumi riferimenti al benessere animale, per esempio Beretta, Levoni, Parmacotto e Fumagalli.
Il Sistema di Qualità nazionale per il benessere animale
Perché queste affermazioni abbiano il valore di garanzie, serve però una normativa – ora inesistente – che stabilisca in modo chiaro in quali casi si possa parlare di “benessere animale”. Nel mese di luglio 2020 è stata approvata la legge che getta le basi giuridiche del Sistema di Qualità nazionale per il benessere animale. Che cosa cambierà? Lo abbiamo chiesto a Federica Di Leonardo di Ciwf Italia (Compassion in world farming).
“La legge approvata la scorsa estate – spiega Di Leonardo – prevede la creazione di una commissione che lavori agli standard di benessere animale. I lavori però non sembrano iniziati all’insegna della trasparenza, infatti non sono stati resi pubblici i nomi di coloro che fanno parte di questa commissione. Il 15 febbraio c’è stato un incontro con le associazioni e le Ong interessate all’argomento, organizzato da Accredia (ente che certifica i certificatori), ministero delle Politiche agricole e ministero della Salute, durante il quale i ministeri hanno presentato la bozza elaborata finora, senza però condividere i documenti ufficiali. Al momento non è neppure previsto un piano di incontri di confronto con le associazioni che, come Ciwf, avrebbero diverse proposte e richieste.”
Per esempio nel caso de suini siamo di fronte ad animali intelligenti, che hanno bisogno di interagire con il gruppo, di giocare, di muoversi e di grufolare. Quando ciò non è possibile compaiono comportamenti di aggressione reciproca come il morso della coda e, per prevenirlo, spesso questa viene tagliata.
Distinguere tra i vari tipi di allevamento
“Sarebbe necessario innanzitutto distinguere le diverse tipologie di allevamento, come accade per esempio per le uova e le galline ovaiole, e come abbiamo proposto di recente anche per le vacche da latte – fa notare Di Leonardo – cosa che al momento non è possibile. L’impianto generale del sistema delineato finora prevede per i suini due soli livelli: al coperto oppure con accesso all’aperto.”
“La nostra proposta, invece, elaborata insieme a Legambiente, è articolata su cinque livelli, ognuno caratterizzato da un codice: allevamento intensivo (codice 4), secondo i requisiti minimi, due tipologie di allevamento al coperto (3 e 2), migliorate rispetto all’intensivo, allevamento all’aperto (1) e allevamento biologico (0), già normato secondo il disciplinare specifico. Questi cinque tipi di allevamento garantiscono via via un maggiore benessere, cioè maggiore libertà di esprimere i comportamenti tipici della specie. Un sistema a due soli livelli, come quello proposto dai ministeri, non favorisce i percorsi di trasformazione graduale degli attuali allevamenti”.
“Un altro problema è quello delle scrofe, – continua Di Leonardo – che, nella maggior parte dei casi, in Italia partoriscono e allattano all’interno di gabbie molto strette e attraverso le sbarre si verificano tutte le interazioni con i piccoli. L’attuale bozza normativa non considera le scrofe e i suinetti, quindi i consumatori si troverebbero a comprare prodotti derivanti da scrofe allevate in gabbia e da suinetti cui sono stati limati i denti, un’operazione molto dolorosa. Esistono produttori che allevano scrofe senza gabbie: è importante dare ai consumatori la possibilità di riconoscerli.”
Il caso Fumagalli
Fra le aziende che producono salumi, a livello industriale, la comasca Fumagalli è forse quella con più esperienza nel campo del benessere animale.
“Una delle caratteristiche di Fumagalli è la gestione dell’intera filiera produttiva – racconta Arnaldo Santi, responsabile comunicazione – a partire dalle fasi di monta e parto, poi lo svezzamento e l’ingrasso, fino alla macellazione e alla lavorazione dei salumi. In questo modo riusciamo ad avere il controllo globale della qualità. Abbiamo iniziato un percorso dedicato al benessere animale circa 10 anni fa, per rispondere alle richieste di alcuni clienti esteri, che rappresentano il 70% del nostro fatturato e sono sempre più sensibili all’argomento. Abbiamo avviato una collaborazione con Ciwf, che ci ha anche premiati con il Good Pig Award, e oggi abbiamo la certificazione internazionale Kiwa Pai che comporta controlli frequenti e rigorosi. Fumagalli lavora circa 90 mila suini all’anno e la vera sfida per noi è stata portare su larga scala l’attenzione al benessere animale.”
“Siamo stati fra i primi a utilizzare box parto aperti, anziché tenere le scrofe in gabbia, come avviene di solito – continua Santi – e abbiamo visto che in questo modo gli animali mettono in atto comportamenti più naturali, che riducono lo stress. Non tutti i nostri animali sono allevati nello stesso modo, in tutti i casi però hanno a disposizione spazi superiori ai requisiti minimi di legge, materiale da manipolare o una lettiera di paglia per poter grufolare. In questo modo si riduce notevolmente il disagio e non è necessario tagliare i denti né la coda, come accade ancora spesso.”
E per quanto riguarda i farmaci?
“Non inseguiamo la politica “antibiotic free” perché riteniamo che se un animale è malato sia necessario curarlo, anche con gli antibiotici, quando è necessario. – Spiega Santi – La nostra esperienza però mostra che, migliorando le condizioni degli allevamenti, e mettendo in atto tutto ciò che è possibile per prevenire le infezioni, l’utilizzo di questi farmaci si riduce notevolmente: negli ultimi anni da noi è diminuito del 40%. Residui di antibiotici non arrivano mai ai consumatori, perché si rispettano i tempi di sospensione previsti dalla legge, in ogni caso stiamo portando avanti test su farmaci alternativi, inoltre, per ridurre il rischio di fenomeni di antibiotico-resistenza, abbiamo stabilito di non utilizzare le molecole considerate salvavita per l’uomo.”
“La vera difficoltà nel portare avanti questo percorso, è che la dicitura “benessere animale” non è normata. – Sottolinea Santi – Per questo a volte è riconosciuto questo attributo ad allevamenti in cui si rispettano semplicemente i requisiti minimi richiesti dalla legge. Solo una normativa puntuale, dedicata a questo aspetto, potrebbe garantire più trasparenza per i consumatori e mettere ordine nell’uso non sempre pertinente di claim dedicati al benessere animale.”
© Riproduzione riservata Foto: Golfera, Beretta, Ciwf Italia e Legembiente, Fumagalli e stock.adobe.com
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Giornalista pubblicista, laureata in Scienze biologiche e in Scienze naturali. Dopo la laurea, ha collaborato per alcuni anni con l’Università di Bologna e con il CNR, per ricerche nell’ambito dell’ecologia marina. Dal 1990 al 2017 si è occupata della stesura di testi parascolastici di argomento chimico-biologico per Alpha Test. Ha collaborato per diversi anni con il Corriere della Sera. Dal 2016 collabora con Il Fatto Alimentare. Da sempre interessata ai temi legati ad ambiente e sostenibilità, da alcuni anni si occupa in particolare di alimentazione: dalle etichette alle filiere produttive, agli aspetti nutrizionali.
Avanti così. I tempi sono maturi per questa norma.
Il tempo dei cani e gatti trattati come figli e suini (intelligenti quanto é piú di quest’ultimi) ammassati giorno e notte nell’indifferenza di tutti deve finire.
Il 99,9% degli allevatori è ben conscio che sostenere il benessere degli animali – aspetto di cui l’Europa si fa vanta con le migliori leggi e regolamenti al mondo che lo sostengono – porta più profitto che non trattare male gli animali. Gli animali si ammalano di meno, sono necessari meno presidi antibiotici per la cura delle malattie, le razioni alimentari sono bilanciate e distribuite meglio, ecc.
Perché la qualità del prodotto la si ottiene solo se la materia prima è di qualità: questo vale per ogni genere di allevamento, biologico o convenzionale.
Comunque i legislatori sono al lavoro, non occorre correre per fare un brutto regolamento attuativo.
Egr. Sig Mattia,
lei nel suo commento utilizza, come elemento di paragone, i cani ed i gatti. Dimentica che in alcuni paesi tali animali, diversamente da noi che li consideriamo “amici dell’uomo”, insieme a tanti altri, vengono utilizzati come alimenti. Tale tipo di considerazione, credendo magari di risolvere il problema o quantomeno fare breccia emotiva negli allevatori, non fa altro che evidenziare una guerra fra poveri “animali”. Forse le sfugge che per evitare che gli animali , tutti, possano avere una “vita più dignitosa”, ammesso che chi é destinato a diventare alimento per noi eletti possa avere una vita dignitosa, l’unico modo é quello di toccare il portafoglio di allevatori e industrie di trasformazione alimentare. E cioè, come consumatori, limitare il consumo di tali alimenti. Allora vedrebbe sicuramente un’attenzione particolare, da parte di costoro, per gli animali. Con rispetto, saluti vivissimi.
Capisco e condivido la necessità di occuparsi del benessere animale, ma proporrei non l’ennesima etichetta aggiuntiva specifica, diversa per polli e per suini e per bovini e per ogni singolo animale commestibile in aggiunta alle etichette verdi, bio, equesolidali, batteria, semaforo, foglia, stella eccetera che stanno rendendo di fatto illeggibile e ingestibile qualunque etichettatura non sia applicata su una confezione da almeno 25Kg, ma una semplificazione e revisione TOTALE del sistema di etichettatura, che comprenda, sempre nello stesso ordine obbligatorio:
– gli ingredienti
– i valori nutrizionali
– il benessere animale
– l’impatto ambientale
– la sostenibilità
– il riciclo degli imballi
. ……
Ma, per favore, NON CON CINQUANTAMILA ETICHETTINE DIFFERENTI LE UNE DALLE ALTRE INSERITE IN ORDINE SPARSO OGNIGIORNOUNANUOVAPERLAMISERIA!
Da consumatore attento che legge tutto trovo francamente frustrante dovermi ogni volta districare tra mille indicazioni messe nei modi più disparati e in ordine casuale e cervellotico e ovviamente in caratteri da formica nana.
oltre il parere del Cwf Italia potreste anche sentire quello dei Ricercatori delle nostre Università?
magari anche leggere
Etica e allevamento animale pubblicato da FrancoAngeli con interventi di oltre 20 docenti/ricercatori e che si sviluppa in ben 10 capitoli
Benessere animale…
Pesca sostenibile…
Sono solo bollini che le aziende pagano (ad aziende che producono bollini) per vendere i loro prodotti a prezzi più alti 🙁
Basterebbe guardare seaspiracy, cowspiracy…
però sono in inglese, troppa fatica forse
Gentile Mauro,
non credo che si possa fare di ogni erba un fascio e che tutti lavorino nel modo che emerge dai reportage/documentari che lei cita. Penso che ci siano molti produttori e pescatori che cercano di rispettare gli animali, perché ne va del loro stesso futuro. Certamente, però, perché i “bollini” abbiano un senso sono necessarie norme, controlli e sanzioni per chi non le rispetta.