Ci sono prodotti che nascono con un’identità, per poi cambiare destinazione d’uso nel corso degli anni. È successo all’olio di palma, storico lubrificante per le ruote dei treni diventato poi uno dei grassi alimentari – e non solo – più diffusi sul mercato, grazie alle tecniche di produzione industriale che ne hanno snaturato le caratteristiche, rendendolo insapore e incolore. Un processo che ha contribuito non solo a diffondere alimenti a basso prezzo di scarso valore nutrizionale, ma anche a danneggiare l’ambiente. Lo spiegano due saggi pubblicati negli ultimi anni, cui la London Review of Books ha dedicato un’ampia recensione a cura della scrittrice Bee Wilson che fa il punto sul ruolo di questo irrinunciabile prodotto. Si tratta di libri molto diversi tra loro, un reportage giornalistico di Jocelyn Zuckerman (Planet Palm: How Palm Oil Ended Up in Everything – and Endangered the World, Hurst 2020) e un’analisi firmata dall’economista Jonathan E. Robins, docente alla North Carolina University (Oil Palm: A Global History, North Carolina 2021).
I due testi analizzano la storia di un prodotto descritto da Wilson come un vero trasformista, che può essere commestibile o no, liquido o solido, saporito o insapore secondo le necessità. Originariamente l’olio di palma – nelle due versioni, quella ricavata dal frutto e quella estratta dal seme o olio di palmisto – arriva dall’Africa, dove era usato come condimento, farmaco, sapone e olio da lampada. In Europa era noto fin dal diciassettesimo secolo, ma la sua storia moderna comincia all’inizio del ventesimo secolo quando l’imprenditore William Lever – proprietario di una fabbrica di saponi che sarebbe poi diventata la Unilever – ha cominciato a utilizzarlo per produrre margarina. Fino ad allora l’olio di palma, usato soprattutto per proteggere dall’ossidazione le ruote dei treni, non era particolarmente apprezzato come alimento. A cambiare le cose sono stati i procedimenti industriali che permettevano di renderlo incolore e insapore, assai diverso dall’olio colorato e pungente – ma anche ricco di nutrienti – utilizzato nella cucina di molti Paesi africani e ancora oggi reperibile nei negozi di alimenti etnici.
Inizialmente l’olio inodore – prodotto con procedimenti industriali a volte pericolosi che prevedevano l’impiego di arsenico – serviva per produrre candele. Fino a quando nel 1880 un’azienda britannica brevettò un metodo per deodorare l’olio di palmisto in modo da renderlo utilizzabile dall’industria alimentare. Inizialmente ricorda Wilson, la coltivazione delle palme e il nuovo prodotto vennero presentati come un antidoto per limitare la schiavitù, all’epoca illegale ma ancora diffusa. In realtà le condizioni dei lavoratori, particolarmente nel Congo belga, erano tutt’altro che accettabili. Ma col tempo le difficoltà incontrate dai produttori africani hanno portato a trasferire l’industria dell’olio di palma in Asia, dove non si trattava di un coltivazione tradizionale e dove si diffuse soprattutto la varietà tenera, originaria del Camerun e particolarmente produttiva.
La coltivazione della palma in Asia è cominciata intorno al 1920, ma la vera e propria esplosione in Malesia e poi in Indonesia risale agli anni ’70 del secolo scorso, favorita, spiega Robins, dagli investimenti della Banca Mondiale che la considerava un’opportunità per combattere la povertà e sviluppare l’economia dei Paesi interessati. Una situazione alla radice del disastro ambientale che oggi stiamo fronteggiando: per le coltivazioni era usata ‘terra non utilizzata’, un eufemismo – precisa Wilson – per definire la foresta vergine indonesiana di cui oggi oltre la metà è stata distrutta.
Senza dimenticare l’impatto sulla salute: negli ultimi cinquant’anni gli oli vegetali hanno apportato più calorie alla nostra dieta di qualunque altro alimento, e tra questi l’olio di palma, in gran parte utilizzato per produrre alimenti ultraprocessati come snack biscotti o merendine, è al primo posto. “Quando parliamo di nutrire il mondo pensiamo ai cereali, ma spesso è l’olio di palma a renderli appetibili”, osserva Robins. Il grasso rende gli alimenti più sostanziosi e gradevoli: il problema è che l’olio di palma apporta calorie ma non nutrienti.
Eppure il successo del prodotto è innegabile: non solo le palme da olio producono più grasso per ettaro di terreno coltivato di qualunque altra pianta. Oltre a essere duttile e più economico di altri oli vegetali, l’olio di palma estende la shelf life degli alimenti per cui è utilizzato. Non c’è quindi da stupirsi che la produzione mondiale sia cresciuta, dai cinque milioni di tonnellate del 1980 ai 62 milioni del 2015. Secondo Zuckerman, oggi questo grasso duttile ed economico è presente nella metà dei prodotti venduti nei supermercati americani, dai saponi agli alimenti, oltre ad essere utilizzato come carburante.
I due saggi hanno un approccio diverso: Robins approfondisce gli aspetti storico economici, mentre Zuckerman analizza il modo in cui i produttori dell’olio di palma hanno combattuto le critiche e accusato i loro detrattori di eco-colonialismo, ignorando il fatto che i produttori di olio siano tra i più ricchi imprenditori del sud est asiatico.
Per documentare il disastro ambientale causato dalle coltivazioni, Zuckerman ha intervistato il primatologo britannico Ian Singleton che racconta come le popolazioni indigene siano state espropriate del terreno che apparteneva alle loro famiglie – ma per il quale non avevano documenti – provvedendo poi a distruggere ogni forma di vita per realizzare i canali necessari alle piantagioni. Nella sola Indonesia, tra il 2000 e il 2012 sono state distrutti quindici milioni di acri (sei milioni di ettari) di foresta pluviale e, secondo le associazioni ambientaliste, la richiesta di olio di palma è destinata almeno a raddoppiare entro il 2050, anche se nella primavera del 2022 le esportazioni della produzione indonesiana sono state temporaneamente rallentate nel tentativo di tenere sotto controllo i prezzi degli alimenti condizionati dalla guerra in Ucraina.
I due saggi evidenziano come il successo dell’olio di palma abbia conseguenze pesanti per la salute, come l’aumento di diabete e obesità collegato al consumo di alimenti processati. Se in Europa e negli Stati Uniti le multinazionali stanno cominciando a togliere l’olio di palma dai prodotti, il consumo in Asia e America meridionale è destinato ad aumentare. Negli USA, per esempio, le chips al formaggio Cheetos sono fritte in olio di mais, girasole e canola ma in India lo stesso prodotto è fritto in olio di palma.
Certo la palma potrebbe essere coltivata in modo meno distruttivo: nel 2004 è stata istituita la Tavola rotonda sull’olio di palma sostenibile (RSPO), associazione formalmente deputata alla produzione di olio sostenibile, composta però in gran parte da rappresentanti dei produttori o da imprese legate alla produzione. Il che, scrive Zuckerman, spiega perché i risultati finora ottenuti siano tanto modesti. Nel 2021 solo il 19% dell’olio prodotto era certificato come sostenibile e la maggior parte delle imprese sono in grado di certificare la provenienza solo di una quota dell’olio di palma utilizzato.
È possibile arginare il danno prodotto dall’olio di palma? Zuckerman descrive il procedimento adottato da un’azienda americana, la Xylome, per realizzare un olio sintetico che potrebbe essere usato per saponi e prodotti di bellezza. Mentre Robins analizza i vantaggi del modello di produzione tailandese – il terzo al mondo per quantità – che a differenza di quanto avviene in Indonesia e Malesia non punta sulla deforestazione ma sull’utilizzo di terreni prima sfruttati per la coltivazione della gomma naturale. Esistono altri progetti virtuosi, ma il problema, sottolinea Robins è che se i costi aumentano viene meno il motivo per cui l’olio di palma è universalmente utilizzato: il suo basso costo. L’olio di palma non esiste come prodotto a sé, ma si trova dappertutto, come ricorda il sottotitolo del saggio di Zuckerman. Ed è questo, spiega Robins, che crea nei confronti del prodotto un’ostilità maggiore di quella esistente nei confronti di altri prodotti tropicali che minacciano l’ecosistema, come il cacao o la soia. La soluzione, concordano gli autori, non è consumare alimenti ultraprocessati che sostituiscono l’olio di palma con qualcosa di meglio, ma evitare questo tipo di alimenti.
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giornalista scientifica
Vicenda incredibilmente globale e illuminante su come funzionano le cose.
Purtroppo troppo poche persone si soffermano a riflettere sulle decisioni quotidiane che ci hanno portato alla fotografia di oggi.
Chissà che non venga fuori un coleottero tipo il punteruolo rosso distrugge le palme in Italia e che ci liberi dalle palme da olio. Tutte le coltivazioni intensive subiscono prima o poi lattacco di parassiti che vanno combattuti con fitofarmaci. Vedi ad esempio le banane soggette a funghi che ne minano la vita. Se i trattamenti fitosanitari sono oltremodo costosi (per trattare le palme è necessario usare l’aereo) può darsi che la foresta possa tornare dov’era.
Grazie