I sacchetti in bioplastica potrebbero influire sulla germinazione (se non smaltiti correttamente): criticità sulla metodologia dello studio scientifico
I sacchetti in bioplastica potrebbero influire sulla germinazione (se non smaltiti correttamente): criticità sulla metodologia dello studio scientifico
Luca Foltran 5 Giugno 2019In seguito alla pubblicazione dello studio inglese secondo cui le plastiche biodegradabili non sarebbero soggette a decomposizione così rapida come ci si aspetterebbe, sono state fatte ulteriori indagini comparative tra i vecchi sacchetti in polietilene e quelli in materiale compostabile, attualmente in commercio nei supermercati, prodotti con una miscela di polimeri a base di amido.
Un team di biologi e chimici dell’Università di Pisa ha esaminato l’impatto sulla germinazione delle piante del lisciviato (soluzione acquosa che si forma in seguito all’esposizione delle buste agli agenti atmosferici e alle precipitazioni), pubblicando lo studio sulla rivista scientifica “Ecological Indicators” (abstract).
Da quanto è emerso – affermano in una nota i ricercatori – entrambe le tipologie di shopper rilascerebbero in acqua sostanze chimiche fitotossiche (ovvero dannose per le piante) che interferiscono nella germinazione dei semi. La differenza è che i lisciviati da buste non-biodegradabili agirebbero prevalentemente sulla parte aerea delle piante, mentre quelli dei sacchetti in bioplastica avrebbero effetti sulla radice. Risultati che mostrerebbero (cosa non nuova) come la dispersione delle buste nell’ambiente, indipendentemente dal materiale di cui sono fatte, possa rappresentare una seria minaccia.
La reazione di Novamont, azienda produttrice della materia prima con cui si realizzano i sacchetti compostabili, non è tardata ad arrivare. In un comunicato si sottolinea che “L’università di Pisa continua ad inventarsi nuove metodologie per determinare l’effetto negativo dei sacchi compostabili nel caso in cui, invece di essere inviati a compostaggio come succede normalmente, finiscano in mare. La notizia crea clamore, perché si fa notare come le soluzioni alternative come quelle compostabili non rappresentano una via virtuosa verso la protezione ambientale, anzi.
Peccato – prosegue la nota – che le metodologie adottate per arrivare a queste conclusioni non sono validate. Sono esperimenti una tantum, di cui non è stata determinata la sensibilità, la riproducibilità, l’affidabilità e soprattutto non è dato il quadro di riferimento, necessario per interpretare i risultati. Manca all’appello un’informazione indispensabile per valutare il dato: qual è l’effetto delle sostanze di riferimento? Non lo sappiamo perché non sono state usate sostanze di riferimento.
È come la lancetta di un apparecchio di misurazione senza la scala, un tachimetro senza numeri. Cosa succede se il sistema pisano viene applicato ad altre sostanze, ad altri tipi di materiale, a sacchi ed imballaggi di differente natura? Soprattutto, cosa succede se il sistema viene applicato a sostanze naturali, tipo foglie o altri tessuti vegetali? La risposta è “piatta” oppure c’è un segnale? Inoltre, è “normale” che 8 sacchi si ritrovino tutti insieme in un litro d’acqua, oppure questa dose, usata dai ricercatori di Pisa è irrealistica, un po’ come cercare di dimostrare che l’aspirina uccide somministrando ad un paziente 100 compresse tutte insieme? Per ora non è dato saperlo e, in assenza di questa informazione, i risultati, pubblicizzati ai quattro venti, diventano fuorvianti, anche perché si incide su delle attività commerciali senza la sicurezza di avere a che fare con risultati riproducibili e sensati oppure di lavorare su artefatti metodologici”.
Non ci è dato sapere se è realistico pensare che 8 sacchetti possano ritrovarsi tutti insieme in un litro d’acqua come si chiede l’azienda chimica italiana, ma quello che è certo è che siamo in presenza di una situazione preoccupante anche in Italia, a prescindere dai sacchetti compostabili, e che spiagge e fondali sono coperti da rifiuti. Proprio qualche giorno fa Greenpeace, che sta effettuando, in collaborazione con The Blue Dream Project e i ricercatori dell’Università Politecnica delle Marche e Cnr-Ias, il giro del Tirreno Centrale per monitorare l’impatto dell’inquinamento da plastica nei nostri mari, ha parlato di “situazione scioccante” alla foce del Sarno, documentando il tutto con foto e video. Come si vede, contenitori e imballaggi in plastica sommergono l’area marina in prossimità della foce del fiume, nel golfo di Napoli, in Campania, al confine tra Castellammare di Stabia e Torre Annunziata.
La situazione si aggrava ulteriormente se si pensa a tutto ciò non è possibile vedere ad occhio nudo: i fiumi, infatti, possono portare in mare anche grandi quantità di microplastiche non individuabili a prima vista.
Dalla nota diffusa da Greenpeace si legge che, secondo studi recenti, l’80 per cento delle microplastiche – particelle inferiori ai 5 millimetri di dimensioni – ha origine in ambienti terrestri e proprio attraverso i fiumi arriva nei mari di tutto il mondo.
Il problema dei rifiuti plastici è ben maggiore di quanto si possa immaginare. Anche i Paesi del Sud Est asiatico che finora hanno rappresentato una delle soluzioni per lo smaltimento di rifiuti provenienti dall’Occidente, sembrano non essere più disposti ad accettare i carichi. La Malesia per esempio ha deciso di spedire indietro a Stati Uniti, Canada, Australia e Regno Unito quasi 3mila tonnellate di rifiuti di plastica non riciclabile, dopo che 60 container di rifiuti sono stati intercettati mentre venivano introdotti di nascosto nel paese per essere portati in discariche illegali. Dallo scorso luglio ad oggi il governo malese ha chiuso già più di 150 impianti fuori legge.
Cinque container di rifiuti sono stati restituiti alla Spagna all’inizio di maggio, mentre altri dieci verranno rispediti nelle prossime due settimane.
Tornando alle bioplastiche, è innegabile che vi sia ancora ampio spazio di implementazione sotto il profilo qualitativo e in merito ai tempi necessari alla completa degradazione, ma le buone notizie non mancano. Un gruppo di scienziati della Kaunas university of technology (KTU) in Lituania ha creato una bioplastica compostabile, che si decompone in un bidone di compost in un paio d’anni, adatta tra l’altro ad entrare in contatto con alimenti. Il materiale è costituito da cellulosa, una sostanza naturale, principale elemento costitutivo delle membrane delle cellule vegetali, solitamente derivata dal legno, la cellulosa è il biopolimero più comune presente in natura. Nei centri di compostaggio industriale invece, che mantengono una temperatura di 58° C, la bioplastica degraderebbe in soli 6 mesi.
Il materiale ha un costo ben superiore agli standard di mercato, come ammette il dottor Paulius Pavelas Danilovas, principale ricercatore del team. Tuttavia il numero crescente di consumatori alla ricerca di valide alternative alla plastica tradizionale, potrebbe spingere le aziende a investire su soluzioni di questo tipo, e un costante aumento della domanda potrebbe agire favorevolmente sul costo delle materie prime.
© Riproduzione riservata
[sostieni]
Esperto di Food Contact –
Linkedin: Foltran Luca –
Twitter: @foltranluca
Già ora le bioplastiche compostabili si degradano in 3 mesi in un impianto di compostaggio industiale ( è la norma, sennò non si potrebbero definire “compostabili” ). Perchè una plastica che si degrada in 6 mesi dovrebbe essere un passo in avanti?
Secondo la norma EN 13432 per essere definita compostabile una plastica deve soddisfare diversi requisiti tra cui:
1. Biodegradabilità, determinata misurando la effettiva conversione metabolica del materiale compostabile in anidride carbonica: il livello di accettazione è pari al 90% da raggiungere in 6 mesi.
2. Disintegrabilità , cioè la frammentazione e perdita di visibilità nel compost finale (assenza di contaminazione visiva: il materiale in esame deve essere biodegradato insieme con rifiuti organici entro dodici settimane (circa 3 mesi). Alla fine il compost viene vagliato con un setaccio di 2 mm di luce. I residui del materiale di prova con dimensioni maggiori di 2 mm sono considerati non disintegrati. Questa frazione deve essere inferiore al 10% della massa iniziale.
Fatemi capire: i paesi citati, compresa la Spagna, inviano loro plastiche in MALESIA??? Incredibile. Dico, non è un viaggio di un centinaio di km…
Peraltro, approfitto di questo articolo per aggiungere una nota che volevo postare nell’articolo su acqua minerale in plastica di qualche giorno fa. Si parlava della necessità di ridurre le bottiglie in plastica, ma io segnalavo che già fare correttamente la raccolta e smaltimento era già una soluzione di molta parte del problema. Voglio chiarire questa cosa meglio, con un esempio. Oggi usiamo lampadine fluorescenti a led che non possono essere buttate come si faceva con quelle a filamento. Ora, può succedere che purtroppo gli incivili non facciano la raccolta e magari le abbandonino perfino nell’ambiente. Non credo però che nessuno chiederebbe di tornare alle vecchie lampadine di una volta
La questione plastica è probabilmente molto più complessa, perché perfino quella correttamente raccolta negli impianti comunque dà certo esito ad una qualche dispersione nell’ambiente, specie di microplastiche.