La città di New York ha 1,4 milioni di poveri, e spreca il 40% del cibo prodotto. Come fare per ridurre entrambi questi numeri? Se lo è chiesto un gruppo di giovani chef e imprenditori (16 in tutto, per ora) guidati da Matt Jozwiack, chef in un famoso ristorante ma anche responsabile della parte che si occupa di nutrizione della New York Academy of Medicine, probabilmente indignato per ciò che vedeva ogni giorno, e cioè quintali di cibo di ottima qualità buttati via dai ristoranti della Grande Mela perché non consumati o non adatti alla preparazione dei piatti (questo succede, per esempio, con molte parti di carne). I fondatori della start up senza fini di lucro ReThink, di cui parla in un articolo il sito Civil Eats, volevano fare qualcosa di diverso rispetto a ciò che già esiste, cioè il mero raccordo logistico tra alcuni fornitori (per lo più supermercati) e le organizzazioni che cercano di preparare pasti per gli indigenti. E ci sono riusciti. Il loro modello infatti prevede la raccolta della materia prima quasi esclusivamente da ristoranti quotati, a volte stellati, il trasporto a loro spese nella sede di Brooklyn, la lavorazione da parte dello staff (nel quale figurano anche alcuni apprendisti presi proprio tra i destinatari dei pasti, in modo da insegnare loro un lavoro) del maggior numero possibile di pasti e pietanze pronte e la consegna del cibo, già confezionato ed etichettato, agli enti caritatevoli.
Così, anziché fornire per esempio quintali di pollo e verdure, ReThink prepara, nel giorno in cui questi alimenti sono disponibili, piatti (o minestre o altro) a base di pollo cucinato con quelle verdure, per poi elaborare, il giorno dopo, una soluzione diversa in base a ciò che arriva, e poi consegna nei luoghi dove c’è più bisogno, in accordo con la Food Bank cittadina, che coordina il tutto.
Molti i benefici di questo tipo di intervento. Innanzitutto, ha spiegato Jozwiak, si preparano piatti il più possibile bilanciati dal punto divista nutrizionale, si sfruttano almeno in parte alimenti di stagione, evitando, per esempio, che una certa fascia di popolazione riceva solo pasta, o solo carne perché beneficia solo della donazione di una catena di fast food che ha eccedenze di carne e basta. Poi si contiene lo spreco, che affligge anche questa parte della catena alimentare, perché a volte le donazioni all’ingrosso sono in parte inutilizzabili, per motivi vari. Infine, si aiutano i gestori di ristoranti a capire quanto grande sia il loro spreco, a comprendere come fare per ridurlo (anche continuando a preparare piatti graditi ai clienti) e come risparmiare riducendolo, visto anche la donazione di cibo è detraibile dalle tasse.
Per sensibilizzare contro lo spreco mentre agisce, ReThink chiede un giudizio ai propri “clienti”, come fanno i ristoranti, e continua a studiare come migliorare il funzionamento della struttura e della rete che sta creando attorno a sé, per esempio evitando di intervenire in zone della città dove sono già attive altre organizzazioni ReThink ha già raccolto quasi 70.000 dollari da varie fondazioni private, convinte della validità del progetto (denaro usato per retribuire lo staff) e preparato quasi 1.500 pasti: è stata inaugurata da poche settimane, e al momento ne riesce a sformare tra i 50 e i 75 al giorno, ma l’obbiettivo è di creare una sorta di rete per arrivare a un milione di pasti al giorno, a New York e non solo.
Nel frattempo ha superato alcuni ostacoli imprevisti. Innanzitutto i rischi legali, perché qualcuno ha fatto notare che in caso di intossicazione alimentare la colpa sarebbe potuta ricadere sul ristorante d’origine, con un danno d’immagine preoccupante, e questo avrebbe potuto dissuadere i donatori, ma ReThink ha stipulato con i ristoranti accordi legali che prevedono l’assunzione del 100% delle eventuali responsabilità in proprio, sottolineando al tempo stesso che nessuno degli enti che si occupano di nutrire i più poveri ha mai ricevuto denunce.
Inoltre ha eliminato i problemi logistici per i fornitori, dotandosi di un furgone refrigerato che preleva e consegna. Ha risolto anche la questione dei contenitori: per non gravare sui ristoranti (quelli monouso costano tra il mezzo dollaro e il dollaro l’uno), consegna loro vaschette e contenitori nuovi, ritirando quelli pieni di cibo non utilizzato. Non sono mancate le critiche: secondo alcuni osservatori, questo tipo di iniziative distrae energie, attenzione e soprattutto denaro ad altre che potrebbero essere più incisive, se riguardassero le vere cause della povertà, ma secondo Jozwiak un approccio non esclude l’altro, e mentre si lavora sui grandi temi sociali ci sono azioni che possono avere notevoli ricadute anche culturali, oltreché pratiche.
Il modello in qualche modo richiama l’idea di Ruben, il ristorante della Fondazione Pellegrini inaugurato a Milano nel 2014 che per un euro offre vere e proprie cene di qualità a chi si trova in difficoltà, e ne approfitta per inserire i propri clienti nella rete cittadina di aiuto e di ascolto. Ruben è ormai una realtà consolidata, che prepara oltre 500 pasti al giorno e che ha preso parte anche a iniziative di altro tipo nell’ambito dell’assistenza ai più indigenti, e anche se non ha risolto la piaga della povertà sociale, in due anni e mezzo ha aiutato migliaia di persone.
© Riproduzione riservata – Foto: Rethinkfood.nyc
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Giornalista scientifica