
La programmazione della pesca in UE non funziona, se è vero che il 70% delle specie commerciali pescate in Nord Europa è in una situazione di overfishing (cioè di prelievi superiori alla capacità della popolazione di riprendersi), di calo drastico o di autentico collasso. E questo nonostante l’Unione Europea, attraverso la Common Fisheries Policy (CFP), abbia indicato nel 2022 l’anno in cui la sovrapesca sarebbe dovuta terminare. Come mai? Quali sono le cause di una situazione che peggiora di anno in anno? E quali le possibili soluzioni?
Per cercare di fare chiarezza, un gruppo di ricercatori del GEOMAR Helmholtz Centre for Ocean Research di Kiel e dell’Università della stessa città tedesca ha esaminato a fondo la situazione generale e un caso davvero emblematico, quello del Mar Baltico del Nord, individuando diversi aspetti critici e fornendo indicazioni su come si potrebbe cambiare per avere miglioramenti in tempi relativamente brevi.
Burocrazia nemica della pesca sostenibile
Come ricordato su Science, la CFP è basata sul rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), secondo cui le popolazioni ittiche devono sempre essere mantenute entro livelli tali da consentire loro di recuperare. In Europa, le quote disponibili per la pesca, definite total allowable catches (TACs), sono fissate in accordo con quanto stabilito dall’International Council for the Exploration of the Sea. In base a tutto ciò, ogni anno la Commissione propone le quote annuali, e le discute con le parti dei singoli Paesi. Quindi, la parola finale spetta al Consiglio dei Ministri UE della pesca, che fornisce le cifre definitive.
Come si può notare, il sistema è farraginoso e richiede diversi passaggi. E questo lo espone a distorsioni: di volta in volta, di autorità in autorità, le quote vengono aumentate, perché tutti gli stakeholder rispondono a qualche lobby. Alla fine della cascata burocratica, i numeri sono spesso del tutto scollegati dalla realtà. E questo mette in luce le prime debolezze: la definizione delle quote dovrebbe basarsi sulla situazione reale dei mari, e non su astrusi calcoli che partono dal presupposto – errato – che la capacità di rigenerazione degli stock ittici sia intatta e totale. In realtà, sempre meno spesso le popolazioni di pesci riescono a recuperare, sia perché sempre sottoposti a nuove battute di pesca, sia per le condizioni del mare, sia perché il riscaldamento del clima ha profondi effetti sulla riproduzione. Ma di tutto questo non si è mai tenuto conto.

Un caso di scuola
Nel Mar Baltico occidentale si è creata, negli anni, una situazione rappresentativa di quella più generale dei mari europei e non solo. Le specie commercialmente più ricercate sono tre: i merluzzi (le diverse specie), le aringhe (Clupea harengus) e le platesse (Pleuronectes platessa). Mentre le prime due sono in uno stato permanente di stress, al punto che si sono registrati diversi episodi di collassi dei banchi, le platesse e gli altri pesci piatti come le passere (Platichthys flesus) e le limande (Limanda limanda) sono stabili e anzi, spesso in aumento. In pochi li pescano, anche se non hanno nulla da invidiare alle altre due specie. Nel 2022, per esempio, è stato pescato solo un decimo della quantità di questi pesci che si sarebbe potuta prelevare senza minacciarli.
Squilibri come questi andrebbero corretti, incentivando il consumo di specie diverse dalle pochissime commercializzate e depauperate, ma altrettanto nobili, e suscettibili di prelievo sicuro. Ma le decisioni sulle specie da pescare sono prese per lo più dalle grandi aziende, e questo costringe anche i pescatori locali ad adeguarsi, nonostante siano loro le prime vittime di una pesca che costa sempre di più e rende sempre di meno, ricordano gli autori.
Errori a catena nella programmazione della pesca
Uno dei punti più vulnerabili del sistema delle quote sono le stime dell’ICES, regolarmente superiori rispetto alla realtà. Secondo i ricercatori di GEOMAR, il difetto sta nel fatto che ogni anno l’istituto elabora previsioni basate su un teorico recupero del 100% dei pesci pescati e, anzi, su popolazioni in aumento. Questo, però, non avviene mai in quelle percentuali e anzi, il recupero peggiora di anno in anno, perché le popolazioni, nella migliore delle ipotesi, sono ‘stagnanti’, e sempre più spesso in declino. Per questi ‘ripristini fantasma’ si elaborano stime su situazioni che non si verificheranno mai, e che aggravano quella reale, perché è da quelle stime che arrivano le quote eccessive della programmazione comunitaria. La quale, in alcuni anni, prevede di prelevare più pesci di quanti ce ne siano effettivamente in mare. È dunque evidente che il meccanismo è da correggere.

Come fanno notare gli autori, è sempre più frequente il fatto che i pescherecci non raggiungano le quote, per il semplice fatto che tutto quel pesce, in mare, non c’è, oppure è talmente poco che la spesa della battuta non è compensata dal valore del pescato, e i pescatori preferiscono restare in porto.
Come se ne esce
L’Europa, secondo GEOMAR, deve assumere – con urgenza – un ruolo di leadership nella pesca sostenibile, peraltro rispettando gli obiettivi della sostenibilità 2030 delle Nazioni Unite. A tale scopo, dovrebbe dotarsi di una nuova autorità del tutto indipendente, simile a ciò che la Banca Centrale Europea rappresenta per il sistema economico-finanziario, che abbia il mandato di fornire regolarmente stime basate su solide evidenze scientifiche e non su dati teorici. In base a queste ultime dovrebbe indicare le quote sostenibili annuali per ogni specie, tenendo presenti i principi dell’ecosystem-based fisheries management (EBFM) cioè della gestione sostenibile degli stock, che comprende i dati di tutto l’ecosistema. La creazione di un’authority permetterebbe di arrivare anche a leggi più adeguate e finalizzate allo stop all’overfishing, che a quel punto diventerebbe un obiettivo realistico.
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Giornalista scientifica
Dire Overfishing, e dare licenza di entrare dove si vuole, in aree protette come l’area Artica, il mare del nord,zone costiere,usando qualsiasi tipo di pesca fuorilegge:reti a strascico,seismic testing, sonar, scandagli,il tutto nel potere di lobby che si contendono i mari con navi da pesca talmente avanzate da essere invisibili ai controlli chiamate dark-vessel’s oppure lo fanno apertamente come a loro tutto fosse concesso, un depeauperamento della vita marina che non ha alcuna protezione, nessuna possibilità di riproduzione ,basti pensare le tonnellate che vengono pescate per industrie ittiche,che da decenni hanno portato alla distruzione dell’ecosistema marino,ciò che c’era merluzzi,platesse,banchi di pesce che prima erano visibili ora sono praticamente scomparsi o vicini alla minaccia di estinzione, per uno sfruttamento che non guarda più nulla,o parola fine o sarà la fine di molte specie ittiche,nascoste sotto tante promesse mai mantenute,i mari devono vivere, perché sono la più grande risorsa che la Natura ci ha dato e dobbiamo presevarli non restare fermi davanti ad un stillicidio voluto dalle lobbies ittiche, sarebbe certamente una via senza ritorno.
Questo articolo presenta una visione assolutamente parziale della problematica. Nessuno nega che gli stock ittici siano a rischio, ma parlare soltanto dell’overfishing come causa è intellettualmente disonesto.
Se non si parla di riscaldamento globale, di cambiamento climatico, di inquinamento e di tutte le altre attività antropiche, è evidente che – come pure insinua l’articolista nei confronti delle rappresentanze della pesca – si risponde alla logica di qualche lobby.