I pistacchi sono sempre più apprezzati e consumati, come frutta secca o come semilavorati utilizzati in cucina o per confezionare dolci e gelati. E se una volta il gelato di pistacchio poteva contenere armelline (semi di albicocca) ed era colorato con clorofilla che gli conferiva un improbabile color verde brillante, oggi molte gelaterie puntano sul pistacchio di qualità che si caratterizza per il colore meno squillante ma dal sapore più gustoso.
All’argomento ha dedicato un lungo servizio la trasmissione A bon entendeur dell’emittente svizzera RTS, partendo dai principali produttori come l’Iran dove il pistacchio rappresenta il primo prodotto della voce esportazioni dopo il petrolio, seguita da Stati Uniti (in particolare la California) – che assicurano insieme a Turchia e Grecia buona parte della produzione mondiale. L’eccellenza italiana è il pistacchio di Bronte che rappresenta il 90% della produzione nazionale, seguita da piccole produzioni nell’agrigentino e nel nisseno – apprezzato in tutto il mondo per la qualità.
“Quella del pistacchio è una coltivazione rustica, che deve il suo pregio alla ricchezza della terra lavica in cui è coltivato tradizionalmente, innestando la varietà bianca su piante selvatiche di pistacia terebinthus”, spiega l’agronomo Salvatore Grigoli della Cooperativa Pistacia Etna Bio la principale cooperativa di pistacchi biologici di Bronte, che da settembre commercializzerà i pistacchi biologici delle aziende socie anche con la Denominazione di Origine Protetta Pistacchio Verde di Bronte Dop. A Bronte il pistacchio viene raccolto da tutti i produttori ad anni alterni, da fine agosto a settembre: “Una tradizione di cui abbiamo riscoperto la validità per limitare lo sviluppo di parassiti e tutelare la qualità del prodotto”, spiega Grigoli. Poi i frutti, raccolti a mano, sono liberati meccanicamente dal mallo, la pellicola che avvolge il guscio, e fatti essiccare per tre giorni in pieno sole, sorvegliati attentamente e messi al coperto se c’è nuvolo o piove per evitare che assorbano umidità. Dopo questo trattamento vengono stoccati in locali coperti e mantenuti a una temperatura inferiore ai 15°, oppure avviati alla trasformazione per essere commercializzati come: pasta, granella e altro tipi di semilavorati. “La caratteristica del pistacchio biologico rispetto a quello coltivato in modo convenzionale, è che non vengono utilizzati pesticidi o trattamenti chimici per forzare la produzione, né erbicidi per controllare le erbe infestanti”, ricorda Grigoli.
I pistacchi, come tutta la frutta a guscio, possono sviluppare muffe che producono sostanze tossiche e cancerogene come le aflatossine: secondo le statistiche riportate dal programma francese A bon entendeur, i lotti più frequentemente bloccati e respinti alle frontiere per via dell’eccessiva presenza di aflatossine provengono dall’Iran o dalla Turchia e in qualche caso anche dagli Stati Uniti. Questo dato emerge anche dai sequestri Rasff negli ultimi anni (l’ultimo caso segnalato da Il Fatto Alimentare, riguardava anche prodotti a base di pistacchi). Raramente il problema della contaminazione si rileva per i pistacchi di Bronte: “Le nostre aziende – spiega Grigoli – sono aziende piccole dove la procedura di essiccazione viene seguita con molta attenzione, ma soprattutto è il nostro sistema di lavorazione che evita al pistacchio l’accumulo di umidità. Il mallo viene eliminato meccanicamente e non si utilizzano sistemi ad acqua che le aziende più grandi preferiscono per rendere i gusci bianchi e lucenti. I pistacchi di Bronte hanno il guscio beige chiaro, e possono esserci macchioline scure dovute all’ossidazione del mallo. Inoltre l’essiccazione viene fatta al sole e non in forni che non sempre garantiscono un flusso d’aria ben distribuito”.
Il problema è che oggi il pistacchio di Bronte sembra onnipresente in ogni gelateria e supermercato, anche se si tratta di una produzione limitata. Questo accade perché la denominazione fa gola, ed è quindi opportuno usare cautela per assicurarsi di avere acquistato vero pistacchio Dop (leggi articolo). Un problema segnalato anche da un servizio di Report che ricorda come nel 2016 siano emersi illeciti su un quinto dei prodotti controllati.
Illeciti a parte, bisogna tenere conto del fatto che nella cittadina siciliana si è sviluppata un’industria che lavora e confeziona anche pistacchi di altre provenienze. Questi prodotti possono legittimamente essere venduti come “prodotti confezionati a Bronte” e questo può trarre in inganno il consumatore. Anche perché su semilavorati – per esempio sulle paste di pistacchio vendute alle gelaterie – o prodotti trasformati destinati al consumatore come pesto, creme o snack, la commissione europea non prevede l’obbligo di indicare la provenienza della materia prima (come per tutti i prodotti mono ingrediente o con ingrediente principale superiore al 50%, con l’eccezione di pasta e latticini).
Per quanto riguarda le etichette, solo il pistacchio di Bronte riporta la denominazione “Pistacchio verde di Bronte Dop”. Oltre alla scritta è possibile riconoscerlo osservando la forma allungata, il colore (esterno violaceo e interno verde intenso), e apprezzandone il sapore tendente al dolce” consiglia Grigoli. Per quanto riguarda i prezzi, il pistacchio di Bronte costa dal 30 al 40 in più rispetto a prodotti importati dall’Iran o anche dalla Turchia o dalla Grecia, ma non è detto che questo si traduca in un maggior guadagno per le aziende locali. Tra gli elementi da prendere in considerazione c’è il contenuto di sale. Il pistacchio di Bronte in genere non è salato, mentre alcune confezioni di semi iraniani o americani possono contenerne quantità elevate.
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giornalista scientifica
Il pistacchio confezionato a Bronte ma di altra provenienza, fa squadra con il prosciutto stagionato a Parma ma di altra provenienza, alla mozzarella italiana di cagliata importata, ai succhi con concentrati di frutta importata, alle creme di nocciola con oli tropicali e nocciole importate, ecc.. ma anche con la pasta italiana ma di grano duro importato.
Tutte operazioni legittime, oppure inganni ben riusciti a consumatori ignari?
Tutti alimenti sicuramente buonissimi fino a prova contraria, ma che di Made in Italy hanno solo il nome e non è corretto nasconderlo con pubblicità ingannevoli.
La differenza tra la pasta e gli altri prodotti che lei cita è che il grano duro importato costa almeno il 20% in più rispetto a quello italiano ed è di migliore qualità!
Dr. La Pira penso che ormai il concetto di qualità del grano duro sia abbastanza chiaro quasi a tutti e che non dipenda dal tenore proteico contenuto ma dall’indice di glutine che ne determina la “forza”.
Forza ed elasticità che servono per la migliore macchinabilità negli impianti industriali e non sicuramente per la digeribilità della proteina.
Digeribilità che è inversamente proporzionale alla sua forza.
Quindi quando parliamo di qualità di un grano duro, ci sono due fazioni in conflitto d’interesse:
– una rappresentata dai pastai che vogliono fare tanta pasta nel più breve tempo possibile ed alla massima velocità negli impianti;
– l’altra rappresentata dai consumatori ed il loro/nostro apparato digestivo, che vorrebbero digerire il glutine il più presto e nel miglior modo possibile.
Entrambe le fazioni hanno esigenze legittime ed ognuno risolve i propri problemi come può e sa fare.
I pastai pagando di più il grano duro con maggior “forza” ed i consumatori informati pagando di più la pasta più affine al proprio apparato digestivo, magari d’origine italiana che non guasta.