La Cina è il primo importatore di pesce al mondo ma, nonostante la narrazione alimentata ad arte dal governo, tre quarti dei prodotti che arrivano nella Repubblica Popolare Cinese non sono affatto destinati al consumo locale. E questo, naturalmente, ha conseguenze pesanti sulla tracciabilità e quindi la sicurezza del pesce spedito in tutto il mondo, sulla sua impronta globale, su ciò che viene riportato in etichetta e sulle piccole comunità di pescatori di altri Paesi, che non sono in grado di resistere all’impatto economico delle attività cinesi. È un attacco molto duro quello proveniente dai ricercatori della Duke University, dell’Università della Florida e di altre quattro università americane e norvegesi ospitato su Science. La nota dei ricercatori dimostra che gran parte di ciò che viene raccontato dalla Cina non corrisponde ai fatti, e si chiedono modifiche molto significative al sistema globale di commercio del pesce.
Gli autori si sono concentrati sul re-export, cioè sulla pratica per la quale una merce, in questo caso il pesce, viene acquistato in un Paese, lavorato e poi esportato all’estero come se provenisse dal Paese primo importatore. La cosa di per sé è abbastanza normale, ma assai delicata in ambito alimentare, soprattutto quando interessa volumi così significativi di scambi. Hanno incrociato i dati del consumo procapite cinese con quelli degli scambi commerciali in entrata e in uscita, ed effettuato delle stime abbastanza precise, che mostrano come qualcosa non torni. Un caso esemplare, in questo senso, è quello del merluzzo, che i cinesi non pescano affatto (secondo quanto dichiarato), ma di cui esportano il 35% in più di quanto non importino. Il surplus probabilmente è altro pesce bianco, di qualità inferiore, etichettato come merluzzo, lavorato e poi spedito all’estero, oppure è merluzzo arrivato da fonti non dichiarate, per esempio pescato illegalmente in acque internazionali. E non è un caso isolato: secondo la stima effettuata dagli autori, tra le 15 specie più importate dalla Cina, ve ne sono altre cinque, oltre al merluzzo, di cui il Paese non è produttore, che viene prelevato da mari diversi al solo scopo di rivenderlo. Per esempio, nelle catene della grande distribuzione degli Stati Uniti si trova salmone selvaggio etichettato come prodotto in Cina, ma il Paese non risulta pescare salmone.
Tutto ciò comporta danni ingenti ai pescatori locali, perdita di posti di lavoro, chiusura di piccole aziende per la lavorazione del pescato e impoverimento delle comunità, che si ritrovano senza alcun ritorno economico. Inoltre contribuisce ad accrescere l’impronta associata al pesce, visto che questi prodotti percorrono il globo terrestre in lungo e in largo, anche più di una volta. Un altro problema è quello della sicurezza. Il pesce ‘made in China’ attraversa molti Paesi, ciascuno dei quali ha regole proprie sulle lavorazioni e su tutti i passaggi della filiera: la tracciabilità è quasi impossibile, ed è terreno fertile per frodi di ogni tipo soprattutto nei prodotti lavorati nei quali è difficile distinguere il pesce di origine. Per questo gli autori chiedono regole più stringenti a livello internazionale, a cominciare proprio dalla tracciabilità di tutta la filiera, e norme che tutelino maggiormente i pescatori locali. Una proposta è di favorire la creazione di cooperative e di flotte fin modo da condividere aree specifiche di mare assicurando un flusso costante di pesce, riducendo le spese ed essere più competitivi con i bassissimi costi cinesi.
In questo attacco, sferrato principalmente da università statunitensi, traspare la guerra commerciale in atto tra Cina e Stati Uniti. Anche considerando questo elemento, il commercio del pesce ‘cinese’ presenta criticità, che richiederebbero urgenti e significative correzioni.
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Giornalista scientifica
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