Molti di noi hanno ancora negli occhi le immagini impressionanti del latte di pecora sversato per protesta sulle strade e nelle piazze dagli allevatori sardi nel 2019. Un gesto dettato dall’esasperazione per l’ennesima oscillazione del prezzo del loro prodotto che, quando ha toccato i valori più bassi, ha finito per essere inferiore agli stessi costi necessari per sostenere gli allevamenti di pecore. Tutto questo è strettamente legato alla produzione di un nostro storico formaggio Dop, il Pecorino Romano che, nonostante il suo nome, viene prodotto principalmente in Sardegna (oltreché, naturalmente, nel Lazio e nella provincia di Grosseto).
È per produrre questa denominazione che si impiega la maggior parte del latte ovino munto in Sardegna (70%) e nel 2020 il suo giro d’affari ha rappresentato la seconda voce dell’economia della Regione in termini di Pil. Proprio con l’intento di valorizzare adeguatamente questo formaggio, quindi, con un probabile riscontro anche sul prezzo della materia prima, negli ultimi anni sono state proposte alcune modifiche alle regole (disciplinare) di produzione di questa Dop molto conosciuta in Italia, ma tuttora venduta soprattutto all’estero, in particolare negli Stati Uniti.
Tra le novità più significative, spicca una maggiore differenziazione del prodotto, che porterà sugli scaffali dei negozi alcune varietà di Pecorino particolarmente pregiate e distintive. Al prodotto “di Montagna”, già previsto dalle norme sulle produzioni casearie anche per altri formaggi e realizzato con animali allevati sopra i 600 metri di altitudine, si aggiungeranno quindi il Pecorino Romano “Extra”, con un contenuto di sale inferiore a quello del prodotto classico, oppure il “Riserva”, con una stagionatura superiore ai 14 mesi.
L’ultima modifica al disciplinare decisa dai soci del consorzio riguarda poi in particolare la razza delle pecore destinate alla produzione del latte. La proposta è quella che il Pecorino Romano Dop si possa fare solo con latte munto dalle pecore autoctone dell’area di produzione. Tra queste spicca, naturalmente, la nota e più diffusa Pecora Sarda, ma vi si aggiungono anche la Vissana, la Sopravissana, la Massese e la Pecora dell’Amiata. La novità, insieme alle altre modifiche, attende ora l’approvazione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali prima di essere sottoposta al vaglio dell’Europa, e rappresenta un’eccezione nel panorama dei formaggi Dop.
“A eccezione di quanto già previsto per il formaggio Fiore Sardo Dop – dichiara Gianni Maoddi, presidente del Consorzio di tutela del Pecorino Romano –, solitamente i disciplinari non pongono alcun vincolo rispetto alla razza degli animali impiegati (questione invece molto significativa nelle produzioni a base di carne; ndr). La nostra scelta, però, per la quale prevediamo sette anni di conversione in modo da dare a tutti i conferitori la possibilità di eliminare le eventuali contaminazioni genetiche, si pone nella logica di stringere ancora di più il legame tra il prodotto e il suo territorio. Le razze autoctone che abbiamo indicato, infatti, a differenza di altre razze ovine, sono destinate totalmente a un tipo di allevamento che può essere esclusivamente di tipo estensivo, con il pascolo brado”.
Questa modalità di allevamento contribuisce a rendere il Pecorino Romano Dop uno dei formaggi a minore impatto ambientale tra le produzioni casearie del nostro paese, con una gestione che non solo salvaguarda il benessere animale, ma contribuisce anche alla tutela e alla valorizzazione di aree del territorio italiano altrimenti destinate alla marginalità. Un ulteriore punto a favore delle modifiche al disciplinare appena proposte. Si attende ora l’approvazione definitiva, che dovrebbe arrivare dopo un iter burocratico destinato a durare sei/otto mesi.
© Riproduzione riservata; Foto: Consorzio di tutela Pecorino Romano Dop
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