Pasta De Cecco, perchè non mette l’origine del grano in etichetta? La richiesta di un lettore che risponde alla lettera inviata in redazione
Pasta De Cecco, perchè non mette l’origine del grano in etichetta? La richiesta di un lettore che risponde alla lettera inviata in redazione
Roberto La Pira 12 Dicembre 2013Riceviamo e pubblichiamo questa lettera sull’utilizzo della scritta “made in Italy” nelle confezioni di pasta, in replica alla nota che De Cecco ha inviato a Il Fatto Alimentare.
Complimenti all’astuzia della ditta De Cecco! Nella sua risposta ha pensato bene di non menzionare minimamente la legge 350/2003, secondo la quale la sua etichetta con la bandierina italiana e la scritta “made in Italy” sono illegittime su pasta fatta con materie prime estere…
Facciamo pò di chiarezza… Nei prodotti alimentari bisogna innanzitutto distinguere tra origine di un prodotto e provenienza. L’origine riguarda la nazionalità della materia prima utilizzata. La provenienza è il luogo dove il prodotto è stato “elaborato” o trasformato. Con il Decreto 134/2012 è stato convertito in Legge il Decreto-Legge 83/2012 che ha aggiunto alla Legge 350/2003 questa fondamentale precisazione: “Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti E (e sottolineo, E!!! Congiunzione!) il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale”.
Questo comporta che se il luogo di origine della materia prima (Italia), coincide con quello di trasformazione, allora si può scrivere “Prodotto Italiano” o, equivalentemente apporre bandierine tricolori o similari. Se invece il luogo di origine della materia prima non coincide con quello di trasformazione, allora si può scrivere “Prodotto Italiano” o, equivalentemente apporre bandierine tricolori o similari, solo precisdando che la materia prima ha origine estera. Nel caso della pasta De Cecco, alla bandiera nazionale va obbligatoriamente aggiunto che il grano duro utilizzato è per un una certa percentuale di origine estera.
Questa è una legge nazionale assolutamente in vigore. E’ una norma di buonsenso, in quanto serve a salvaguardare il diritto di chi effettivamente crea prodotti a partire da materia prima nazionale (spesso a costi inevitabilmente più alti) e che viene purtroppo confuso con altri prodotti che di italiano hanno solo la manifattura, ma sono bravi a vendersi con bandiere e claim vivaci. Come potete capire ai produttori di pasta (così come di altri prodotti tipicamente associati all’Italia) gli si sta chiedendo solo un pò di chiarezza, per continuare ad usare la bandierina tricolore.
Basta indicare l’effettiva origine della materia prima, altrimenti di toglierla dalle confezioni (perchè di certo non gliel’ha ordinato il dottore di mettercela), e di lasciare così spazio e visibilità ai prodotti davvero 100% italiani.
R Squillantini
Foto: Photos.com e archivio
Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
La cruda realtà è che il grano duro proveniente dall’estero è migliore della maggior parte del grano duro coltivato in Italia. La bravura della De Cecco, inoltre, si misura sul prodotto presente sugli scaffali, ed è questa bravura che dobbiamo proteggere, tutelare e farci riconoscere dagli altri, non correre dietro a fisime protezionistiche senza futuro
basta indicarlo che le materie prime principali in questo caso il grano provengono da altri paesi, come la zona fao per il pesce ecc
Il lettore cita una legge nazionale, ma se la memoria non mi inganna i Regolamenti Europei sono la fonte giuridica massima, quindi superiori alle leggi nazionali.
E il Reg. CE 2913/92 all’art 24 recita: “Una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima
trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a
tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase
importante del processo di fabbricazione.”
Se nel corso degli anni il Reg. CE non è stato modificato (qualcuno confermerà o smentirà), questo è il quadro di riferimento, menzionato tra l’altro proprio dalla legge richiamata dal lettore: “Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine.”
Ma non sono un giurista e posso tranquillamente sbagliare. Qualcuno di più esperto sicuramente potrà confermare o smentire.
Il lettore R. Squillantini ha perfettamente ragione.
Le industrie agroalimentari italiane adottano queste astuzie con la consapevolezza di affossare il vero “Made in Italy 100%”, che di solito è fatto da piccole imprese.
Non comprendo la reticenza del fatto alimentare sulla questione della provvenienza!
Una cosa è la provvenienza, un’altra cosa è la qualità!
Il consumatore va informato sia sulla provvenienza e va garantito sulla qualità del prodotto.
Se questi grani esteri sono qualitativamente migliori, lo scrivessero sulle etichette!
H qualche dubbio sull’affermazione che il “vero Made in Italy 100% che di solito è fatto da piccole imprese”.
Ferma restando la constatazione del know how e della qualità del prodotto finito di buona parte di esse, va anche constatato che, salvo che per piccole filiere interamente locali (molto marginali per i volumi), le imprese di trasformazione artigianali e quelle di ristorazione si riforniscono necessariamente di materia prima da grossisti, distributori, molini, eccetera, avendo minori possibilità di controllo sull’origine agricola della materia prima di quanto non abbia una grande impresa con molino di proprietà.
Al panettiere, al pastificio artigianale, al pizzaiolo medio interessa più che gli sfarinati abbiano una buona resa tecnologica e organolettica piuttosto che derivino da frumenti coltivati sotto casa o, almeno, in Italia.
Non è un giudizio di merito, è un dato di fatto.
Suggerisco un test tra i panettieri di prossimità per indagare il livello d’informazione sull’origine agricola delle materie prime.
Sarebbe interessante che intervenisse l’avvocato Dongo in modo da capire che valenza possa avere questa legge nazionale (che tra l’altro, nel contesto in cui è inserita mi sembra abbia principalmente lo scopo di prevenire l’importazione di falso “made in Italy” dall’estero) rispetto alla normativa Europea vigente che in quanto tale è gerarchicamente superiore.
Se il Fatto Alimentare lo potesse contattare sarebbe un contributo prezioso alla discussione.
anche io come Alessandro, vorrei sapere l’opinione dell’avvocato Dongo
grazie
e dove è previsto che se mettono made in italy con farina proveniente dall’estero devono specificarlo in etichettatura??
Per me “made in italy” vuol dire dove è stato fatto un determinato prodotto, ovvero dove è avvenuta la trsformazione sostanziale, anche con prodotti originari di altri paesi.
Invece diverso se si scrive in etichetta “prodotto italiano” in quel caso dichiarano che il prodotto ha origini italiane e deve essere 100 coltivato e prodotto in italia!!
sono pienamente d’accordo con Franco:il prodotto finito è la pasta, ottenuta in uno stabilimento italiano, perciò “made in italy” è corretto. una tra le più famose case di calzature ha stabilimenti nelle Marche, ma potete giocarvi ciò che volete che pelle, gomma e quant’altro vengono dall’estero; ma è grazie alla maestria degli operai di quelle fabbriche che ne viene fuori un prodotto che io giudico di buona se non ottima qualità. qualcuno può dire che sono due cose diverse, io invece sono convinto che il principio sia identico. ingannevole sarebbe stato scrivere “100% grano italiano”.
Infatti questo è il principio di “ultima trasformazione sostanziale” previsto dalla normativa comunitaria.
E questo è il motivo per cui la legge nazionale citata dal lettore a mio avviso (ma non solo mio) non è compatibile col quadro comunitario.
Anche io sono d’accordo.
Il “presunto” valore aggiunto dato dal “made in Italy” è comunque dato non dall’origine del prodotto, che può essere carne argentina per quanto riguarda ad esempio la bresaola, ma dalle maestrie che in generazioni si sono tramandate nei nostri territori.
Ma i sostenitori dell’astrusa pretesa di fare tutto il prodotto con materie prime totalmente italiane lo sanno di sostenere una produzione insignificante di nicchia assoluta dal punto di vista commerciale, ma soprattutto non qualitativamente dimostrabile?. Vi figurate che megazzino di materie prime, e che organizzazione dovrebbe avere l’industria trasformatrice con tracciabilità per lotti separati di ogni materia prima?
La pasta è buona e sana perché si sanno scegliere le materie prime più adatte e controllate e si lavorano con un know-how esclusivo quello si tipico del made in Italy. E’ l’ideologia autarchica che fa male al cervello ed alle tasche dei consumatori !!
Concordo pienamente con chi sostiene che la bontà di un prodotto si valuta in termini di selezione e qualità delle materie prime, controlli di processo e maestria nella lavorazione, analogamente alla sicurezza al consumo. La pasta italiana è famosa in tutto il mondo perché fabbricata in Italia non perché prodotta con semola italiana.
E DEL CAFFE’ (ALTRO PRODOTTO SIMBOLO DELL’ITALIA NEL MONDO) COSA VOGLIAMO DIRE?
QUANTE PIANTAGIONI DI CAFFE’ IN ITALIA CI SONO?
Mi sembra di leggere una serie di autocommemorazioni a parte l’unica voce contraria ……
Appunto , scrivessero sull’etichetta la bontà della materia prima di altra provenienza
Anche io credo che la bontà di un prodotto si valuti anche secondo i metodi descritti , eppure alla fine , il consumatore ignaro e che ha poche se non nulle possibilità di verificare la qualità deve per forza di cose attenersi a quello che gli viene proposto dal marketing relativo ad un prodotto e non da altro … e affidarsi ai controlli sanitari previsti per legge e che stanno diventando sempre più purtroppo autocertificazioni (salvo casi speciali)
Se le produzioni di nicchia sono insignificanti dal punto di vista commerciale , di cosa ci si preoccupa?
“E una volta” si tratta delle vecchie confezioni con etichette già stampate e che dovrebbero essere buttate via quando invece basterebbe consentirne l’uso fino a smaltimento delle scorte e scegliendo nuovi metodi per stampare sulle confezioni come si fà gia per la data di scadenza una indicazione “post realizzazione della confezione”
E un’altra volta si tratta dei costi aggiuntivi per i produttori e che cmq si può decidere di lasciare al consumatore finale se accettare o meno di farsene carico (pare circa il 90% dalle indagini comunitarie) visto che è lui a decidere/scegliere/pagare
Poi c’è la questione dei produttori locali che con marketing mirato tramite l’apposizione dell’origine 100% italiano, potrebbero ingannare i consumatori (cosa che a mio parere già accade e senza usare direttamente le diciture 100%)
Poi si ipotizza che si rischierebbe di abbassare l’attenzione del consumatore rispetto alla qualità dei prodotti nel momento in cui chi usa le “bandierine italiane” potrebbe approfittarne se non addirittura deviare l’attenzione dei controlli di sicurezza/qualità rispetto ai controlli sull’origine , e qui dovrebbero entrano in ballo sopratutto le strutture pubbliche
Ma la questione VERA/REALE qual’è??? …. forse è da cercare “altrove”
In effetti in italia non ci sono piantagioni di caffè ed un prodotto finito che è tra i migliori al mondo, perchè non dovremmo sapere che anche la pasta, prodotto di eccellenza in italia, viene realizzata a con farina che arriva da molto lontano (così come anche per il caffè)!?!?
C’è un esempio della Nike così come anche della Apple, che hanno dovuto rimodellare i propri processi di produzione/approviggionamento poichè finalmente è venuto a galla come/dove venivano realizzati i loro prodotti nonostante il prodotto finito fosse un prodotto di eccellenza.
Ma questo a chi produce/vende quanto interessa?
Maggiore trasparenza a mio parere dovrebbe essere la parola d’ordine da seguire nel mondo del commercio e non solo nel settore agro-alimentare anche a discapito di una riduzione degli utili ma MAI dei controlli
Sul discorso degli imballaggi, già le è stato spiegato che non si tratta dei costi iniziali, visto che il buon senso dice che le confezioni già stampate vangano utilizzate fino a smaltimento…
Non capisco perchè secondo Marco le ragioni che sono state portate nei vari interventi e che hanno anche trovato conferma nell’ultima relazione della Commissione Europea non debbano essere ritenute valide o reali…
Non mi sembra lungimirante sottovalutare il fatto che i costi vadano a gravare sui consumatori, ma evidentemente il fatto che questo possa causare contrazione dei consumi e diminuzione dell’occupazione non è considerato un problema. Come evidentemente non è considerato un problema che le aziende, comprese quelle medio piccole (la maggioranza delle aziende italiane) debbano dotarsi di macchinari nuovi per codificare l’indicazione dell’origine post-confezionamento con costi non indifferenti, se qualcuno ne ha la minima idea. Come non è evidentemente considerato un problema il fatto, confermato dalla stessa Commissione Europea che, stanti le già scarse risorse destinate ai controlli, aggiungere la necessità di ulteriori controlli rischi di rendere meno efficaci quelli attuali (che mi auguro nessuno reputi meno importanti visto che vigilano sulla sicurezza) o porti ad un aumento di tasse.
Non capisco perchè tutto questo debba essere considerato non vero e non reale…o meno vero e meno reale delle motivazioni portate da chi ha un legittimo parere contrario…
In ogni caso qui si parla di una legge nazionale gerarchicamente inferiore rispetto alla normativa comunitaria.
Quanti procedimenti di infrazioni ha già aperto l’UE nei confronti dell’Italia per gli stessi motivi?
Infatti , io non ho detto che le motivazioni della C.E. non siano valide , al momento, sono delle valutazioni e non delle decisioni finali.
L’aumento di costo c’è , sottolineavo che si va dal 15 al 50 (ed il 50 è relativo non a tutti i prodotti ma solo ad alcuni)
>..dell’occupazione non è considerato un problema
Il problema dell’occupazione c’è, se vogliamo analizzarlo nel dettaglio dobbiamo solo capire “CHI/dove” vogliamo proteggere.
Possiamo proteggere l'”occupazione nazionale” ovvero una certa massa critica di piccoli produttori locali oppure una parte di lavoratori anche stranieri+parte di lavoratori italiani che lavorano per la grande industria?
Io ritorno sempre sullo stesso punto, non è giusto decidere scegliendo di favorire solo un settore merceologico/categoria sociale rispetto ad un’altra ma occorre una contrattazione (aggiungo giusta ed equa tra le parti)
tutto il resto è solo una serie di motivazioni di parte.
Che ci sia il rischio che vengano ridotte le risorse relative ai controlli è vero e per questo mi auguro che si riesca ad andare avanti su entrambe le strade : controlli attuali + controlli sull’origine
Fortunatamente è proprio la gerarchia comunitaria che sta valutando la questione dell’indicazione dell’origine ma vorrei ricordare che a questa gerarchia prendiamo parte anche noi/ne facciamo parte , non è mica una entità esterna che ci comanda e basta… proprio noi in italiane dovremmo cercare di tutelare maggiormente la qualità dei nostri prodotti “pretendendo” che l’indicazione dell’origine venga riconosciuta non solo a livello comunitario ma anche in altri paesi
Purtroppo questa cosa non fa piacere a parecchie grosse aziende che (vedi : grandi volumi di produzione / basso costo al dettaglio ) rischiano di ridurre il loro mercato/profitti.
Io da consumatore sono disposto a pagare un po in più innanzitutto per avere maggiori cotrolli ma anche per avere maggiori informazioni circa il prodotto che acquisto (vedi ad esempio l’origine)
faccio un esempio:
Io voglio sapere se la pasta che acquisto viene realizzata con grano di provenienza Canadese oppure con grano di altra origine e non deve essere necessariamente italiana.
Il Canada “è favorevole” alle coltivazioni OGM. Diciamo che c’è poca attenzione a queste problematiche. Quando arriva quel grano in italia , se le quantità di OGM nella farina sono sotto la soglia dello 0.9 non devono essere dichiarate …. alla fine nel mio piatto cosa ci va a finire ? ….. “una pasta prodotta in italia” e con una soglia di OGM sotto allo 0.9
Infatti sono d’accordo e l’avevo scritto spesso nei miei interventi precedenti: si tratta di scegliere in quale settore investire.
Io ho spiegato i motivi per cui secondo me la strada di investire nell’industria porti alla lunga vantaggi per tutti, al contrario di quanto accadrebbe investendo in agricoltura nel nostro paese. Ma per carità, ognuno la vede a modo suo.
Non mi trovo d’accordo invece sull’OGM. Al di là che se non ricordo male, tempo fa avevo letto di una presa di posizione della Commissione Canadese del grano che si diceva contraria alle coltivazioni di grano OGM, il fatto che il grano venga dal Canada non lo trasforma automaticamente in grano OGM. Il consumatore deve dare per scontato che la farina che acquista non sia OGM. Lo deve fare perchè è un suo diritto quello di acquistare un prodotto conforme alla normativa vigente. Ed è chi controlla che deve tutelare il consumatore, non il consumatore che si autotutela non potendone avere i mezzi.
Qualora si scoprisse che ci sono farine che superano la soglia di OGM senza indicarlo in etichetta, la colpa non sarebbe della provenienza. La colpa sarebbe da individuare nella malafede di chi l’ha etichettata erroneamente e nella mancanza di controlli. Le regole ci sono, chi non le rispetta deve pagare.
La soglia dello 0,9% stabilita dalla normativa europea vale poi per tutti i prodotti.
Per tutti quindi vale il discorso: “nel mio piatto finisce un prodotto x con una soglia di OGM sotto allo 0,9%”. Può non piacere la normativa, ma non c’è nulla di occultato. Se poi il consumatore non conosce la normativa e da per scontato che gli OGM in ciò che mangia siano 0, è un altro discorso…