Il dibattito sulla maggiore intolleranza al glutine dei grani moderni rispetto a quelli in uso in Italia 60-100 anni fa ha ripreso vigore dopo l’intervento di Dario Bressanini sul suo blog. Il ricercatore, che nella vita è chimico presso il dipartimento di Scienze chimiche e ambientali dell’Università degli studi dell’Insubria a Como, parla di alcuni studi secondo cui i nuovi grani non sono molto diversi da quelli antichi per quanto attiene la sensibilità o l’intolleranza al glutine.
Il divulgatore si appella a pizzaioli, giornalisti, nutrizionisti e operatori del settore affermando “campane a morto per l’ipotesi che i “grani moderni”, qualsiasi definizione vogliate dare al termine, siano in qualche modo causa dell’aumento della celiachia o dei vari malanni attribuiti al frumento. O che siano in qualche modo “peggiori”, “meno sani”, “veleno” o qualsiasi altra attribuzione la pubblicistica dell’industria del salutismo militante e i suoi guru in servizio permanente effettivo gli abbiano attribuito negli ultimi anni.” L’invito è di “non cadere preda delle sirene del nutrizionismo markettaro che cerca di vendere questo o quell’alimento in base a suggestioni che non sono dimostrate dalla ricerca scientifica”.
Ospitiamo un intervento di Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione all’Università di Bologna, che contesta le tesi del blogger e fa una premessa di ordine deontologico sul ruolo dei comunicatori scientifici che operano nell’ambito nutrizionale.
In Italia, le figure che hanno titolo per parlare di nutrizione sono solamente tre. Le elenco in ordine della lunghezza degli studi fatti per conseguire questi titoli: il medico dietologo, specializzato in scienza dell’alimentazione, oppure che ha conseguito specializzazioni che riguardano patologie in cui la nutrizione è centrale (diabete di tipo 2, obesità, sindrome metabolica, insufficienza renale, etc…); il biologo nutrizionista e il dietista. Tutte le altre figure non hanno titolo per suggerire alle persone cosa mangiare o cosa non mangiare, e se suggeriscono piani nutrizionali o modificano l’alimentazione ad altre persone (sane o ammalate, clienti o pazienti che siano) commettono abuso di professione.
Chiarito questo, ci sono molti scienziati che pur non appartenendo a queste tre categorie hanno comunque deciso di studiare la nutrizione o fenomeni ad essa correlati. Questi sono farmacisti, biotecnologi, biochimici, chimici, naturalisti e nel caso del grano ovviamente agronomi. In tutti questi casi però, i loro studi – se hanno un valore per la comunità scientifica – vengono pubblicati all’interno di una raccolta di pubblicazioni che si chiama PubMed. Tutti gli altri (incluso Bressanini) non partecipano direttamente alla comunità scientifica che si occupa di nutrizione e di grano, ma fanno divulgazione scientifica, più o meno buona, scegliendo e commentando articoli scritti da altri autori.
L’articolo di Bressanini sui grani, prende in considerazione una ristrettissima selezione di articoli (digitando “grani antichi” si trovano oltre 200 articoli su PubMed) che trattano di glutine, celiachia e peptidi tossici derivati dal glutine e che concludono che sostanzialmente non trovano differenze tra i diversi grani. L’articolo di Bressanini quindi avrebbe dovuto coerentemente concludere che dal punto di vista del contenuto in glutine e dei frammenti del glutine tossici per i celiaci non ci sono differenze tra grani antichi e moderni. Invece allarga le sue conclusioni all’intero cereale.
Per quanto riguarda i fenomeni infiammatori o di alterazione della funzionalità intestinale dovuti al grano la comunità scientifica, solo per fare un esempio chiarificatore, ha deciso di cambiare nome alla sensibilità al glutine non celiaca e di chiamarla sensibilità al grano non celiaca. Perché? Perché non siamo sicuri che questi fenomeni infiammatori siano dovuti al glutine o al solo glutine. Ci sono altre proteine del grano che per altri aspetti sono considerate infiammatorie o antidigestive (esempio gli inibitori dell’amilasi-tripsina) e che sono diversamente presenti nei grani tradizionali e moderni. Quindi il discorso non riguarda solo il glutine ed i suoi peptidi tossici per i celiaci, ma tutte le proteine del grano (e forse non si limita nemmeno alle sole proteine). Per questo l’articolo di Bressanini è certamente parziale.
Altro punto che l’articolo di Bressanini non tocca minimamente sono gli effetti sull’uomo che si evidenziano mangiando questi grani. La digestione è un processo complicatissimo, che non si riesce a riprodurre in vitro con la stessa complessità, e molti degli articoli citati da Bressanini si basano proprio sulla digestione in vitro.
Quando guardiamo gli studi clinici sull’uomo, le differenze tra grani tradizionali e moderni appaiono in modo evidente. Lo studio di Francesco Sofi del 2014, pubblicato su di una prestigiosa rivista (British Journal of Nutrition) che vede i grani moderni causare peggioramenti su pazienti con colon irritabile, quello di Anne Whittaker (2017) pubblicato su European Journal of Nutrition, svolto in doppio cieco (cioè con il massimo della certezza dei dati) vede come mangiando un grano tradizionale si possono migliorare i parametri clinici del Diabete di tipo 2 e l’infiammazione ad esso correlata.
Un altro articolo del 2015 (primo autore M.C. Valerii) pubblicato su Food Chemistry scopre che le proteine di due grani moderni sono molto più infiammatorie rispetto a quelle dei grani tradizionali utilizzando cellule del sistema immunitario di pazienti adulti sensibili al grano. La stessa cosa si evidenzia anche su pazienti pediatrici sensibili al grano (Alvisi P. et al., 2017, International Journal of Food Science and Nutrition). Perché tutti questi articoli non vengono presi in considerazione nell’articolo di Bressanini? Perché non parlano di glutine e di celiachia? In tutti questi articoli gli autori concludono che dal punto di vista nutrizionale e/o infiammatorio, le differenze tra grani tradizionali e moderni si vede eccome. Quindi è evidente che gli articoli selezionati da Bressanini sono stati scelti proprio per le conclusioni cui arrivavano e non in modo casuale! Le conclusioni riportate anche se non sono di Bressanini, appartengono ad autori scelti da Bressanini secondo un criterio assai evidente.
Considerazione non meno importante, è che la nutrizione è un sistema di una complessità enorme. Bisogna tenere conto di tantissimi aspetti, e capisco che un chimico fatichi a vederli a 360°. I grani tradizionali si coltivano con pochi fertilizzanti e pochi pesticidi. Semplicemente perché non sono utili: fertilizzare troppo è controproducente e questi grani si difendono bene da soli dai parassiti. Quindi scegliere grani tradizionali vuole dire anche scegliere di mangiare meno pesticidi, meno glifosato (e qui mi fermo perché la dottoressa Renata Alleva ha molti più titoli di me per parlare di questo) e magari ridurre un po’ tutti i nitriti e nitrati che ci sono nelle acque potabili e che ogni anno costringono le regioni italiane ad andare in deroga rispetto ai valori limiti consentiti e considerati sicuri per la nostra salute. Infine, la biodiversità: i grani tradizionali generano maggiore biodiversità laddove vengono coltivati, e la biodiversità è un patrimonio dell’umanità che stiamo rapidamente perdendo. Quindi per moltissime ragioni non è affatto vero che i grani son tutti uguali e che “Ci sono i grani. Punto”.
Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione Università di Bologna e responsabile scientifico del master in Alimentazione ed educazione alla salute
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
Elena,
1.Se dobbiamo discutere sui casi personali e sulle “sensazioni”, allora una parola ha lo stesso peso di un’altra. E io le dico, da cronico consumatore di farine da supermercato, che non ho alcun problema di salute, men che meno di gonfiore addominale
2. Il suo endorsement all’agricoltura biodinamica, cioè un misto di sciamanesimo-esoterismo delirante, la dice lunga sulla sua cultura scientifica 🙂