Il dibattito sulla maggiore intolleranza al glutine dei grani moderni rispetto a quelli in uso in Italia 60-100 anni fa ha ripreso vigore dopo l’intervento di Dario Bressanini sul suo blog. Il ricercatore, che nella vita è chimico presso il dipartimento di Scienze chimiche e ambientali dell’Università degli studi dell’Insubria a Como, parla di alcuni studi secondo cui i nuovi grani non sono molto diversi da quelli antichi per quanto attiene la sensibilità o l’intolleranza al glutine.
Il divulgatore si appella a pizzaioli, giornalisti, nutrizionisti e operatori del settore affermando “campane a morto per l’ipotesi che i “grani moderni”, qualsiasi definizione vogliate dare al termine, siano in qualche modo causa dell’aumento della celiachia o dei vari malanni attribuiti al frumento. O che siano in qualche modo “peggiori”, “meno sani”, “veleno” o qualsiasi altra attribuzione la pubblicistica dell’industria del salutismo militante e i suoi guru in servizio permanente effettivo gli abbiano attribuito negli ultimi anni.” L’invito è di “non cadere preda delle sirene del nutrizionismo markettaro che cerca di vendere questo o quell’alimento in base a suggestioni che non sono dimostrate dalla ricerca scientifica”.
Ospitiamo un intervento di Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione all’Università di Bologna, che contesta le tesi del blogger e fa una premessa di ordine deontologico sul ruolo dei comunicatori scientifici che operano nell’ambito nutrizionale.
In Italia, le figure che hanno titolo per parlare di nutrizione sono solamente tre. Le elenco in ordine della lunghezza degli studi fatti per conseguire questi titoli: il medico dietologo, specializzato in scienza dell’alimentazione, oppure che ha conseguito specializzazioni che riguardano patologie in cui la nutrizione è centrale (diabete di tipo 2, obesità, sindrome metabolica, insufficienza renale, etc…); il biologo nutrizionista e il dietista. Tutte le altre figure non hanno titolo per suggerire alle persone cosa mangiare o cosa non mangiare, e se suggeriscono piani nutrizionali o modificano l’alimentazione ad altre persone (sane o ammalate, clienti o pazienti che siano) commettono abuso di professione.
Chiarito questo, ci sono molti scienziati che pur non appartenendo a queste tre categorie hanno comunque deciso di studiare la nutrizione o fenomeni ad essa correlati. Questi sono farmacisti, biotecnologi, biochimici, chimici, naturalisti e nel caso del grano ovviamente agronomi. In tutti questi casi però, i loro studi – se hanno un valore per la comunità scientifica – vengono pubblicati all’interno di una raccolta di pubblicazioni che si chiama PubMed. Tutti gli altri (incluso Bressanini) non partecipano direttamente alla comunità scientifica che si occupa di nutrizione e di grano, ma fanno divulgazione scientifica, più o meno buona, scegliendo e commentando articoli scritti da altri autori.
L’articolo di Bressanini sui grani, prende in considerazione una ristrettissima selezione di articoli (digitando “grani antichi” si trovano oltre 200 articoli su PubMed) che trattano di glutine, celiachia e peptidi tossici derivati dal glutine e che concludono che sostanzialmente non trovano differenze tra i diversi grani. L’articolo di Bressanini quindi avrebbe dovuto coerentemente concludere che dal punto di vista del contenuto in glutine e dei frammenti del glutine tossici per i celiaci non ci sono differenze tra grani antichi e moderni. Invece allarga le sue conclusioni all’intero cereale.
Per quanto riguarda i fenomeni infiammatori o di alterazione della funzionalità intestinale dovuti al grano la comunità scientifica, solo per fare un esempio chiarificatore, ha deciso di cambiare nome alla sensibilità al glutine non celiaca e di chiamarla sensibilità al grano non celiaca. Perché? Perché non siamo sicuri che questi fenomeni infiammatori siano dovuti al glutine o al solo glutine. Ci sono altre proteine del grano che per altri aspetti sono considerate infiammatorie o antidigestive (esempio gli inibitori dell’amilasi-tripsina) e che sono diversamente presenti nei grani tradizionali e moderni. Quindi il discorso non riguarda solo il glutine ed i suoi peptidi tossici per i celiaci, ma tutte le proteine del grano (e forse non si limita nemmeno alle sole proteine). Per questo l’articolo di Bressanini è certamente parziale.
Altro punto che l’articolo di Bressanini non tocca minimamente sono gli effetti sull’uomo che si evidenziano mangiando questi grani. La digestione è un processo complicatissimo, che non si riesce a riprodurre in vitro con la stessa complessità, e molti degli articoli citati da Bressanini si basano proprio sulla digestione in vitro.
Quando guardiamo gli studi clinici sull’uomo, le differenze tra grani tradizionali e moderni appaiono in modo evidente. Lo studio di Francesco Sofi del 2014, pubblicato su di una prestigiosa rivista (British Journal of Nutrition) che vede i grani moderni causare peggioramenti su pazienti con colon irritabile, quello di Anne Whittaker (2017) pubblicato su European Journal of Nutrition, svolto in doppio cieco (cioè con il massimo della certezza dei dati) vede come mangiando un grano tradizionale si possono migliorare i parametri clinici del Diabete di tipo 2 e l’infiammazione ad esso correlata.
Un altro articolo del 2015 (primo autore M.C. Valerii) pubblicato su Food Chemistry scopre che le proteine di due grani moderni sono molto più infiammatorie rispetto a quelle dei grani tradizionali utilizzando cellule del sistema immunitario di pazienti adulti sensibili al grano. La stessa cosa si evidenzia anche su pazienti pediatrici sensibili al grano (Alvisi P. et al., 2017, International Journal of Food Science and Nutrition). Perché tutti questi articoli non vengono presi in considerazione nell’articolo di Bressanini? Perché non parlano di glutine e di celiachia? In tutti questi articoli gli autori concludono che dal punto di vista nutrizionale e/o infiammatorio, le differenze tra grani tradizionali e moderni si vede eccome. Quindi è evidente che gli articoli selezionati da Bressanini sono stati scelti proprio per le conclusioni cui arrivavano e non in modo casuale! Le conclusioni riportate anche se non sono di Bressanini, appartengono ad autori scelti da Bressanini secondo un criterio assai evidente.
Considerazione non meno importante, è che la nutrizione è un sistema di una complessità enorme. Bisogna tenere conto di tantissimi aspetti, e capisco che un chimico fatichi a vederli a 360°. I grani tradizionali si coltivano con pochi fertilizzanti e pochi pesticidi. Semplicemente perché non sono utili: fertilizzare troppo è controproducente e questi grani si difendono bene da soli dai parassiti. Quindi scegliere grani tradizionali vuole dire anche scegliere di mangiare meno pesticidi, meno glifosato (e qui mi fermo perché la dottoressa Renata Alleva ha molti più titoli di me per parlare di questo) e magari ridurre un po’ tutti i nitriti e nitrati che ci sono nelle acque potabili e che ogni anno costringono le regioni italiane ad andare in deroga rispetto ai valori limiti consentiti e considerati sicuri per la nostra salute. Infine, la biodiversità: i grani tradizionali generano maggiore biodiversità laddove vengono coltivati, e la biodiversità è un patrimonio dell’umanità che stiamo rapidamente perdendo. Quindi per moltissime ragioni non è affatto vero che i grani son tutti uguali e che “Ci sono i grani. Punto”.
Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione Università di Bologna e responsabile scientifico del master in Alimentazione ed educazione alla salute
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza come free lance con diverse testate (Corriere della sera, la Stampa, Espresso, Panorama, Focus…). Ha collaborato con il programma Mi manda Lubrano di Rai 3 e Consumi & consumi di RaiNews 24
Spero che pur appartenendo alla quasi estinta categoria degli Agronomi mi sia concesso ancora il diritto di parlare di …grano!
Ma quali fiumi di pesticidi e nitrati???
Il grano duro è coltura estensiva a bassi input agrotecnici proprio per mere ragioni di ristrettissimo bilancio colturale economico. INFORMARSI da qualsiasi agrotecnico o semplice agricoltore cerealicolo prima di affermazioni generiche prive di fondamento ma facilmente credibili dalle masse urbanizzate ormai senza più “cultura” agricola di base . Semplicemente comico poi il paventato uso di Gliphosate per asciugarlo quando si raccoglie nelle roventi estati mediterranee con tassi di umidità della granella spesso inferiori al 10%.
QUALI SONO, POI, UNA BUON VOLTA, QUESTI GRANI DURI ANTICHI?
Strampelli creando nel 1915 il venerato Cappelli (considerato erroneamente e strumentalizzato ogni dove come un grano antico, ma ha solo 100 anni, al massimo “vintage”) ci andò giù con la selezione molto più dei cd grani moderni che sono semplici miglioramenti da incrocio proprio partendo da quel Cappelli. Ma agronomicamente e qualitativamente direi di stendere un velo pietoso…
(oltretutto Simeto, da 30 anni il grano più diffuso in Italia è nipote proprio del Cappelli)
Qualche sopravvissuto grano siciliano o sardo o la Saragolla lucana, ma si tratta appunto di “sopravvivenze” storiche locali , forse nemmeno così “antiche”, certamente ottime per valorizzare finalmente le agricolture e le tipicità locali, ma assolutamente inadatte alla trasformazione di prodotti di larghissimo consumo su scala nazionale come la pasta di uso quotidiano.
Farro piccolo monococco; medio Dicocco o farro grande Spelta
Questi sì, sono FINALMENTE antichi Triticum progenitori dei grani duri e teneri attuali , sostituzione avvenuta già DAI TEMPI DELL’IMPERO ROMANO (siligo di grano duro sostituì il puls di farro)
Grazie alla loro rusticità e minori esigenze, farro medio e grande hanno però continuato ad essere estesamente coltivati in Italia almeno fino al Medio Evo, quando grazie al ritrovato controllo del territorio e alla ripresa di tecniche colturali abbandonate e per i sopravvenuti, crescenti fabbisogni alimentari delle popolazioni urbane e del bestiame da lavoro la loro sostituzione da parte di frumenti nudi e orzo divenne sempre più massiccia. . Dalle “Giornate” (1579) di Agostino Gallo risulta che in pianura padana nel XVI secolo i farri erano di fatto scomparsi e sostituiti dal grano tenero.
– La Pasta è un alimento di grande ed equilibrata valenza nutrizionale e salutistica, passaporto del made in Italy e perno della dieta mediterranea. Priva di grassi saturi, fonte di carboidrati a basso indice glicemico; di proteine, soprattutto glutine, a basso costo e altamente digeribili a parte una ridottissima fascia di popolazione (celiachia, max 1%) che nessuna fumosa campagna diffamatoria potrà estendere per fini commerciali al resto della popolazione, blandendola subdolamente come sussurato rimedio di “malattie” inesistenti
– Il grano duro (evoluzione naturale già di alcuni millenni dei farri che hanno caratterizzato la domesticazione delle specie selvatiche sin dai tempi della fine della glaciazione di Wurm nella cd. mezzaluna Fertile) ne è ingrediente unico. Coltura principe e identitaria dei migliori territori della Penisola dove occupa circa 1 milione e 300 000 ha (ma ne ha persi almeno 400 000 negli ultimi anni, alla faccia dell”incolmabile” deficit di produzione nazionale) e assolutamente priva di alternative colturali negli ambienti caldo-aridi del Sud-Isole.
• La celiachia un tempo era “sconosciuta”, come le micotossine del resto, non perché non esistessero ma proprio perché non conosciute dal punto di vista scientifico. Di micotossine sono morte milioni di persone nel Medio-Evo con sintomi che inducevano ad accusare di stregoneria e relative condanne al rogo e pur attenuandosi si è continuato a morire fino agli anni ’50 in Europa e in Occidente, oggi non più per fortuna e si cavilla su poche parti per miliardo di nessun effetto tossico. In Africa però si continua ad avere un’alta mortalità per epatocarinoma da aflatossine soprattutto su arachidi.
• Aver finalmente affinato i mezzi di indagine e quindi la casistica non vuol dire che una patologia sia “aumentata”. Serie e importanti indagini epidemiologiche svolte su decine di migliaia di individui in particolare negli USA, ma anche in Europa non evidenziano nessun aumento tanto meno legato alla fantasiosa ma suadente teoria post-verità della diffusione delle varietà cd moderne con glutine più tenace.
• I celiaci ufficiali in Italia rimangono sotto i 200.000, anche se chi se ne occupa seriamente parla dell’1%, quindi molti non sono ancora diagnosticati, diciamo che dovremmo essere sui 600.000 che cmq meritano massimo rispetto e attenzione, ma di certo non STRUMENTALIZZAZIONI per vendere a prezzi decuplicati prodotti meno salutari e più elaborati rispetto alla pasta e al pane ai restante 59.400.000 italiani (per non parlare del resto del mondo, USA in primis dove è nata la Moda-Fobia al glutine)
• I molti VERI celiaci che conosco concordano che questa campagna pubblicitaria martellante non è certo per venire incontro alle loro sacrosante esigenze, ma per “allargare” furbescamente i potenziali clienti a milioni di persone (non ci vuole molto a fare due conti relativi agli investimenti pubblicitari e possibili ritorni economici in termini numerici) per cui il glutine non è certo un veleno insinuandone invece il dubbio e meri scopi commerciali , ma danneggiando sia la loro salute sia l’enorme filiera che parte dal grano e che è alla base della sopravvivenza dell’agricoltura centromeridionale e della sostenibilità dei suoi territori nonché dell’agroalimentare italiano e relativi milioni di posti di lavoro.
• La tanto sbandierata “gluten sensitivity” o meglio NCGS (sensibilità al glutine non celiaca) è argomento assolutamente non definito in ambito scientifico internazionale…. ( Gibson et al 2012, Biesiekierski et al. 2011). Da studi recenti inoltre emerge che ad incidere in maniera importante sullo sviluppo dei sintomi sembrano essere anche i conservanti e gli addittivi alimentari com glutammato, benzoato, solfiti, nitrati e i coloranti.
• Capitolo a parte, ma di analoga pericolosa e sfruttabile indeterminatezza, e come tale fonte di fantasie del web, sfruttate da laboratori diagnostici a dir poco “faciloni” è LA CERTEZZA DELLA DIAGNOSI DI NCGS o GLUTEN SENSITIVITY, a meno di un challenge con il glutine in doppio cieco con placebo. Dal 15° simposio internazionale sulla celiachia (Chicago , 2013) è emerso che NON ESISTONO MARKER DIAGNOSTICI che consentano di identificare con certezza questa condizione( anche l’Ordine dei Medici italiani ha recentemente fatta propria questa conclusione), che preoccupa più per le crescenti AUTODIAGNOSI e relative conseguenze di cattiva alimentazione in larga fetta della popolazione giovane adulta occidentale affetta soprattutto da insicurezze e paure esistenziali che nessun modaiolo FREE-FROM pseudo-salutistico potrà risolvere veramente.
e i diserbanti?
I diserbanti
(meno male, sappiamo di cosa parlare, non il terroristico, generico e anglofashion ma intraducibile “pesticidi”, di successo perchè pest ricorda appunto la peste anche se non è certo quello il significato in inglese…)
sono certo usati in caso di tecniche di coltivazione convenzionale ma non in biologico ma in entrambe i casi a prescindere dalla varietà usata. Le vecchie …ooops antiche …ooops … tradizionali… varietà, considerate banalmente più soffocanti le malerbe perchè generalmente a taglia alta non hanno mai dimostrato in maniera scientificamente probante questa loro “dimenticata” e sbandierata eccellenza.
Per il controllo più efficace delle malerbe occorre più che una taglia alta che si concretizza quando il danno è in gran parte fatto (dalla levata appunto del cereale) una pronta e rapida copertura del terreno che solo varietà a rapida germogliazione e tolleranti le avversità ambientali possono garantire con una competizione luce/spazio/nutrienti/acqua efficace al momento di primo insediamento della coltura.
Il romanticismo vintage è bello ma non è efficiente.
Migliore la strategia di impiego di varietà attuali in regime biologico con controllo supplementare delle infestanti con erpice strigliatore a fine inverno. Produzioni comunque ridotte rispetto al convenzionale, ma un prezzo della granella maggiore del 30-40%. Felici tutti.
Da Agronomo mi rendo benissimo conto se nel campo di grano che visito è stato usato del seme aziendale o del seme certificato. La presenza di “fuori tipo” o più semplicemente di piante svettanti, mi dice subito che l’agricoltore è ricorso a seme aziendale. Per questo motivo non capisco come si possano definire grano Senatore Cappelli o Verna o Gentil rosso quei grani che oggi vengono superficialmente chiamati “antichi”, visto che nessuno in questi anni si è preso la briga di seminarli in purezza per mantenerne inalterate le originali peculiarità, quindi sarebbe più corretto chiamarle popolazioni coltivate che si sono abbondantemente incrociate negli anni con i grani che, via via, si sono succeduti nell’areale di coltivazione. Allora a che scopo menarla in lungo ed in largo con questi grani pseudo antichi? Siamo alle solite, il fascino dei bei tempi andati quando mettere insieme cena e pranzo era un lusso riservato a pochi, passerà anche questa moda.
Non basta più “Antichi”,
adesso coniamo il suadente ma intraducibile termine di “Tradizionali”
COSA SONO E, soprattutto, DOVE SONO I GRANI “TRADIZIONALI” ?
Adesso declassati a “vecchi”…vabbè dai , un piccolo risultato. Sicuramente meno rinco-ammaliante di “antichi”
Da biologo che insegna da decenni Scienza dell’alimentazione trovo un po’ strumentali le critiche del dott. Spisni a Bressanini. Anche l’accusa di aver scelto gli studi che piu confermavano la propria tesi e’ possibile estenderla alla totalita’ degli studiosi e delle pubblicazioni scientifiche. Mi sembra invece inoppugnabile la conclusione che il termine “grani antichi” o, il meno compromettente “grani tradizionali” in realta’ indicano varieta’ che risalgono al massimo ad un centinaio di anni.Le argomentazioni in questo articolo sono poco chiare, evocano complessita’ biologiche non esplorabili, conclusioni generiche e portano il lettore a sapere meno cose di quelle che conosceva prima di leggerlo. Non mi sembra un opera chiarificatrice.
Trattazioni complesse di agronomi sicuramente informati sui fatti, che chiariscono il chiarimento di Spinsi su Bressanini.
Ne deduco, grazie a Fabrizio, che gli unici veri grani definibili antichi e/o tradizionali sono quelli di farro e pochi altri sopravvissuti, siciliani e sardi locali.
Che lo Spisni si riferisse a questi parlando di grani antichi meno problematici?
Forse è proprio così, ma riferendosi a studi riportanti effetti diversi, bisognerebbe poi vedere questi studi a quali grani antichi si sono riferiti ed hanno testato anche in doppio cieco.
Nonostante i chiarimenti c’è ancora tanto da chiarire, senza sottovalutare ne generalizzare, per non fare di tutta l’erba un unico covone.
La maggior parte degli esperti ritiene “antichi” i grani dal primo dopoguerra, è piuttosto evidente che l’aggettivo è stato coniato per pure ragioni di marketing.
La Kamut ha costruito un impero commerciale intorno alla panzana del grano del faraone ed oggi qualcuno sta cercando di intortare i consumatori allo stesso modo.
I cosidetti grani antichi si usavano quando esistevano le stagioni,si mietevano a mano.grazie alla ricerca abbiamo adesso una miriade di varieta’ che si possono coltivare in qualunque clima,con poche unita’ di azoto,con un solo passaggio di diserbanti quattro mesi prima della raccolta.i grani moderni rimangono una delle materie prime piu sane al mondo.preoccupiamoci della non stagionalita’ -conservazione degli alimenti.
Se davvero esiste una sensibilità proinfiammatoria al frumento e sembra proprio che esista al di fuori della vera celiachia, le mucose gastro-intestinali non ragionano in modo razionale come possiamo fare noi ed a volte si ribellano incolpevoli a quello che le costringiamo a digerire.
Questo vale per qualsiasi alimento ed è diverso per ogni persona nell’arco di tutta la vita.
Onere dei gastroenterologi e degli immunologi trovarne le cause e suggerire le soluzioni, meglio se individuali senza generalizzare troppo, o strumentalizzare i conflitti d’interesse delle parti in causa.
Onore ai gastroenterologi ed immunologi ( e vabbè anche “nutrizionisti”) che nel rispetto della loro deontologia professionale si muovono in un ambito di conoscenze scientificamente validate e non seguono panzane modaiole e fashion.
Ma poi perché tutti questi “professionisti” pensano di poter parlare con sicumera di Agronomia e Coltivazioni Erbacee (.. o era nel loro Piano di Studi accademico ???) dicendo PALESI PANZANE con supponente nonchalance come in questo post?
L’agricoltura è attività oggi fra le più difficili e complesse per avere redditi dignitosi e richiede preparazione, capacità imprenditoriale, conoscenze tecniche e giuridiche.
Non siamo più nello spocchioso secolo scorso anche se, dopo la messa al bando di difetti fisici, abitudini sessuali, provenienze etniche o di campanile, simpatie calcistiche, debolezze di genere l’unico VERO INSULTO politically correct rimane ancora “cafone” rimandando dall’alto del salotto bene a figure abbrutite dal sole e dai solchi.
Ecco forse così si spiega che tutti, ma proprio tutti, pensino di poter sproloquiare di agricoltura e quindi di grani antichi….
Un docente di fisiologia della nutrizione ci viene a dire che gli studi in doppio cieco ci danno il massimo della certezza dei dati? Sono sicuro che i grani antichi e moderni abbiano lo stesso sapore!
Cita (in maniera confusa, un minimo di bibliografia sarebbe stata gradita) studi sponsorizzati dalla Kamut, con pochi soggetti.
Infine usa tranquillamente il verbo “causare”, cosa che gli autori degli studi citati si guardano bene dal fare.
Ottimo lavoro, non c’è che dire.
Ma poi ancora sta storia della biodiversità, “generano maggiore biodiversità” ma cosa vuol dire? Se quest’anno semino questa varietà al posto di quella e poi raccolgo, ho generato maggiore cosa?
Sono perplesso dalle affermazioni di Spisni sui nitrati nelle acque potabili, le deroghe sono cessate all’inizio degli anni novanta e i gestori di acquedotti hanno dovuto installare costosi impianti di trattamento per ridurli nei limiti consentiti o trovare nuove fonti di approvvigionamento indenni. L’unica deroga nitrati esistente è quella per le aziende agricole che utilizzano le deiezioni animali per la concimazione ma sono nitrati nei terreni….non nell’acqua potabile.
La lettura di questo intervento del prof. Spisni mi ha suscitato vera irritazione, per la superficialità con cui tratta argomenti in ambito non suo, per le contraddizioni in cui incorre nel sostenere le proprie tesi e per la critica della scelta di articoli scientifici citati dal dott. Bressanini, salvo poi effettuare scelte ancor più “pro domo sua” nelle proprie citazioni, ma per fortuna buona parte delle argomentazioni che avrei voluto portare all’attenzione dei lettori sono state eccellentemente esposte da fabrizio_caiofabricius da Diego Leva e da altri commentatori, ciò mi evita un commento inutilmente lungo.
Se chi proclama:”In Italia, le figure che hanno titolo per parlare di nutrizione sono solamente tre. Le elenco in ordine della lunghezza degli studi fatti per conseguire questi titoli: il medico dietologo, specializzato in scienza dell’alimentazione, oppure che ha conseguito specializzazioni che riguardano patologie in cui la nutrizione è centrale (diabete di tipo 2, obesità, sindrome metabolica, insufficienza renale, etc…); il biologo nutrizionista e il dietista.” rileggesse quanto scrive si renderebbe conto che il vaso non è stretto solo per gli altri.
Personalmente le uniche cose che mi provocano irritazione leggendo questo articolo sono tutti i post che vengono scritti sotto a critica dello stesso! >E con che presupponenza poi!
Alcune note:
1. i grani “vecchi” non sono ibridi e l’agricoltore non è obbligato a riacquistarli ogni anno da un manipolo di aziende sementiere. Ovviamente si arriva ad avere delle “popolazioni” diversamente evolute da agricoltore ed agricoltore, nel tempo, ma questo è il bello della cosa (in contrapposizione con l’uniformità degli ibridi)
2. data la rusticità e la buona tollerabilità a diverse malattie (carie a parte) non vengono chimicamente conciati per la coltura in biologico (e non ditemi che non fa effetto vedere un chicco grano fuxia o turchese)
3. competono ottimamente con le infestanti (e non raccontatemi che non si fanno 1-2 giri di erbicida sui grani ibridi coltivati in convenzionale
4. non è necessario trattarli (e non venitemi a raccontare che non si fanno 3 giri di fungicida sui grani ibridi coltivati in convenzionale)
5. la loro “morte” è la macinazione a pietra che ne preserva le qualità nutrizionali (siano essi teneri o duri).
Certo “rendono” ben meno della metà in campo ma a tutto vantaggio della salute e dell’ecosistema e necessariamente devono avere un prezzo maggiore. E’ uno scandalo? Non credo! Un ibrido “moderno” produce 60-80 q.li un grano non ibrido “vecchio” 25-27. Per quale ragione scusate vi scandalizzate se ha un prezzo superiore?
Quanto al glifosato in pre-raccolta, ricordo che era ammesso in Italia fino a un anno fa e i “miei” conto-terzisiti mi confermano che se ne faceva abbondante uso in annate umide e non solo sul grano!.
Se vi servono altri studi a supporto delle conclusioni di Dr Spisni provate a cercare qui:
http://www.granovirgo.it/progetto-virgo
http://www.granovirgo.it/progetto/pagina-figlio
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Relazione-Finale-Progetto-OIGA_Prof.-Dinelli.pdf
Non credo che l’attività del Prof Giovanni Dinelli Dip Agraria UNIBO o quella del Prof Stefano Benedettelli ad es qui:
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Studio-Univ-Firenze-su-grano-Verna.pdf
siano acqua fresca.
Tranquilli, il mondo è bello perchè è vario.
Io continuerò a coltivare e mangiare grani “vecchi” che mi danno molta soddisfazione in tutti i sensi.
Voi liberissimi di cibarvi di grani che non si sa da dove arrivano.
Elena
Gentile Elena, ma ha letto il lavoro del Prof. Dinelli per esteso o solo le conclusioni? Evidentemente ella non ha fatto parte del panel di degustazione dei diversi pani. Mi sembra che definire significativi i risultati ottenuti, da punto di vista statistico sia alquanto eccessivo. Ma il mondo è bello perché e vario.
La supponenza e la pretesa di esclusività della materia quasi a rischio citazione all'”ordine” di turno non è certo dei poveri agronomi, rilegga bene il post. Ma siamo più che rassegnati che (stra)parlino di agricoltura gli chef a telescandalopoli e i nutrizionisti DOC in camice bianco lindo.
Però vedo che si insiste a “insegnare” materie che NON SI CONOSCONO:
1) grani “ibridi” NON ESISTONO. Forse si confonde col “granone” o mais o granoturco. I grani duri e teneri antichi, vecchi, barzotti ma anche ultramoderni possono benissimo essere riseminati perchè sono appunto varietà.
2) la resistenza o tolleranza alle malattie si perde negli anni perchè si sviluppano nuovi ceppi (patotipi) di funghi che riescono a superare i meccanismi biologici di difesa messi in atto dalla pianta (quando e se presenti). Quindi è una rincorsa alla sopravvivenza, non certo un gerontocomio vintage.
3) sulle affascinanti teorie da suadente postverità che i grani alti competano meglio contro le infestanti ho già risposto sopra. In sintesi conta una buona rapida e fitta partenza competitiva piuttosto che un tardivo ombrello quando gran parte del danno è fatto.
4) le malattie fingine in caso di andamenti climatici avversi ci sono e ci saranno sempre. Del trattamento fungicida si giovano o si gioverebbero tutte quelle varietà più o meno suscettibili, a prescindere dalla data di nascita. Per fortuna al sud il clima secco non determina in genere forti attacchi che cmq ci sono ma spesso con dannosità inferiore alla soglia economica dell’eventuale trattamento che pertanto si evita. Attenzione però che spesso i naturalissimi funghetti possono portare conseguenze poco simpatiche (micotossine non solo strumento di lotta “para-sindacale”, ma concreto rischio epidemiologico che tante stragi fece ai bei tempi di una volta )
Sul prezzo sono pienamente d’accordo invece.
Per il gliphosate penso che abbia contattato contoterzisti della ValPusteria perchè in preraccolta nel centrosud ci sono temperature che asciugherebbero un cavallo. Forse parlavano di “presemina” su sodo, ma è tutto un altro discorso.
La libertà è la cosa più preziosa se non si pretende di limitare quella degli altri diffamandola con argomenti senza riscontri scientifici.
Dimenticavo
Ma il duro Cappelli e il tenero Verna, campioni abusati della teoria postverità “antico è bello” sono stati (del resto COME TUTTE le varietà disponibili) anch’essi “migliorati” (orrore!).
Il Cappelli rilasciato nel 1915
il Verna nel 1952.
Ora , a prescindere dal significato ormai opinabile delle parole in lingua italiana, se però dite a un sessantenne che è “antico” ho paura che s’incavoli di brutto, ma anche se mitigate in “vecchio” temo che rischiate di perdere un amico e, cercando di consolarlo con “tradizionale” , non farete che peggiorare la situazione.
Simeto, nipotino derivante da Cappelli (ebbene si per miglioramento!!) è stato fino a poco tempo fa il grano duro ampiamente più coltivato in Italia ed è stato costituito negli anni’80: uno splendido quarantenne carico di colpe moderniste o un soggetto di mezz’età in procinto di entrare nel raffinato club vintage?
Buongiorno, vorrei riferire una testimonianza diretta sull’uso del grano, mi veniva raccontata da mio padre.
In Sicilia, Agrigento, durante la fine della seconda guerra mondiale assieme agli americani arrivarono alcuni prodotti fino ad allora sconosciuti.
Tra questi alcune sementi di grano che alla prova davano una resa per ettaro coltivato superiore alle nostre sementi..
Mio nonno pensò bene di utilizzare questi semi di grano capete in sostituzione del grano russello fino ad allora utilizzato. Il risultato fu una maggiore produzione per ettaro e quindi maggiori ricavi.
Tutti contenti? No.
Ai tempi si panificava nel forno di casa con le proprie farine. Mia nonna cominciò a manifestare irrequietezza perché il pane non veniva come prima e cosa ancora più grave non si riusciva a capire il motivo.
Dopo varie riflessioni si arrivò alla conclusione che l’unico causa poteva essere l’utilizzo del nuovo grano, e da qui il ritorno alla coltivazione del grano russello che veniva utilizzato per usi alimentari casalinghi, mentre per la commercializzazione veniva usato il nuovo grano che garantiva maggiori ricavi.
Naturalmente questa testimonianza non ha niente di scientifico, vuole solamente essere un contributo delle esperienze del lavoro dei contadini.
Saluti, Angelo
Elena volevo ringraziarti per il tuo intervento ………. perchè tutta questa supponenza è davvero difficile da digerire peggio ancora di certe proteine …..
(e lasciando fuori la questione del “”kamut””)
ma sopratutto per la testimonianza ed i vari riferimenti/link pubblicati
non riesco a capire questo accanimento , a chi da fastidio questo “grano vecchio” e perchè?!
si tratta pure …….purtroppo….di produzioni limitate
La vera supponenza è di chi sostiene tesi in campo tecnico-scientifico non perché frutto di una attenta, intellettualmente onesta verifica dei fatti supportati o contestati, ma perché sfrutta una posizione o un titolo (del tipo: tu non puoi parlare perché non sei, non perché non sai) o perché è laureato all’università della vita, o è una mamma informata, o un onesto cittadino indignato.
Detto ciò, consiglio di leggere bene e tutto il testo di Bressanini e poi di rileggere la risposta di Spisni.
I grani cosiddetti “antichi” non hanno nulla che non vada se venissero elogiati per le loro caratteristiche sensoriali, per la produzione di prodotti tipici, perché valorizzano filiere, si adattano con poco a zone difficili ecc.; ma quello che si è fatto è venderli accusando i cugini “moderni” di provocare la celiachia mettendo in relazione causa-effetto la presunta maggior presenza di epitopi tossici dovuta al miglioramento genetico, accuse che sono state smentite dagli studi scientifici. Il resto sono argomenti differenti.
Grazie a Fabrizio, che mi ha dato l’opportunità di aggiornare le mie evanescenti nozioni, imparate 40 e rotti anni orsono nelle aule della facoltà di Agraria, sulla storia millenaria del grano: mi occupo di tutt’altra branca delle Scienze agrarie – la frutticoltura – a sua volta pascolata da una miriade di guru e profeti del “quanto erano buone le mele di una volta”. Dei quali vedo ci sono molti rappresentanti tra i commenti qui sopra. Ed ai quali – a prescindere dalla loro competenza nella materia – chiedo umilmente se sanno che i non meglio identificati grani antichi ci obbligherebbero quantomeno a più che raddoppiare le superfici coltivate oggi, per avere avere la stessa quantità di granella. Invadendo forzatamente, nonostante una previsione certa di produzioni mediocri, gran parte di territorio oggi presidiato dalla famosa “BIODIVERSITÀ'”, di cui parla il Prof. E. Spisni. Mi viene pero’ il dubbio che, come Agronomo, la mia visione di biodiversità non coincida con quella di un docente di Fisiologia della nutrizione dell’Università di Bologna, responsabile scientifico del master in Alimentazione ed educazione alla salute. Quindi gli chiedo umilmente di spiegarmi, se può, quali sono gli arcani meccanismi per cui essa sarebbe “generata” dalla coltivazione di un grano cosiddetto antico e se, nel bilancio globale del territorio, se ne perderebbe di meno aumentando le superfici coltivate, sia pure a grano antico. Per concludere, suggerirei di dare un occhio ai dati FAO: a livello mondiale, i metri quadrati di terreno coltivabile disponibili per ciascuno di noi sono circa 2.500 oggi. E saranno 1.500 tra 20/30 anni: quindi, in prospettiva futura, memori di Maria Antonietta, alle popolazioni saranno distribuite brioches. A base di grani antichi, naturalmente.
Ma se più semplicemente accettassimo l’idea di coltivare farro e grani antichi in collina e piccoli appezzamenti, lasciando ai “moderni” più o meno ibridati, le poche estensioni pianeggianti italiane, dove la resa fa la differenza tra la povertà e la marginalità?
Ognuno avrebbe il suo grano più adatto al prodotto finito che produce, con marginalità interessanti, senza fare confronti inutili e senza senso logico.
La biodiversità colturale e culturale credo sia una buona soluzione per accordare l’orchestra agroalimentare italiana.
Senza contare che ogni dietologo e nutrizionista potrà prescrivere ricette ai propri pazienti senza troppi conflitti ideologici e/o d’interesse, per prodotti facilmente reperibili per tutte le tasche e per ogni sistema digestivo.
Come molti nei commenti hanno sottolineato, l’intervento del Dott.Spinsi, di cui parla l’articolo, fa veramente acqua da tutte le parti. In primis quando dice che “In Italia le figure che hanno titolo per parlare di nutrizione sono solamente tre…..”. Ovviamente confonde il termine “parlare di”, cioé “divulgare”, con il termine di “poter fare prescrizioni mediche”. La divulgazione scientifica la puó fare “chiunque”. Ovviamente, per fare divulgazione scientifica c’e’ bisogno di competenza, curiositá, modestia e tanto tanto tempo passato a studiare. Non c’e’ bisogno di titoli accademici specifici. Prova ne é Piero Angela. Altra cosa ovviamente e poter fare prescrizioni mediche. Li si che c’e’ bisogno di una laurea quinquennale e specializzazione. E, ad esempio, il “Dietista”, indicato dal Prof. come una delle UNICHE 3 figure professionali avente titolo a parlare di nutrizione, non puó fare neanché prescrizioni mediche perché non abilitato.
Passando poi ai lavori citati dal Prof., ho analizzato soltanto il primo (mi sbatto di andare oltre se giá il primo lavoro che si cita per dare soliditá alle proprie tesi, é un “explorative study”, cioé uno studio grossolano che si fa giusto per vedere se un’intzuizione vale la pena di essere esplorata o no). L’articolo a cui il Prof. fa riferimento per portare avanti la tesi che ci sono “chiare ed evidenti” differenze tra grani tradizionali e moderni é del Dott. Francesco Sofi del 2014. Purtroppo il Prof. non cita il titolo del lavoro (chissá perché?), ma dovrebbe essere questo qui: “Effect of Triticum turgidum subsp. turanicum wheat on irritable bowel syndrome: a double-blinded randomised dietary intervention trial” (a fine commento il link al lavoro). Andiamolo ad analizzarlo: l’intero studio si basa su…(rullo di tamburi)….. “20 pazienti” classificati come aventi un moderato IBS (sindrome da intestino irritabile). Ai 20 pazienti sono stati dati prodotti (pane, pasta, biscotti e crecker) fatti con grani moderni e con grani antichi. Il tutto é durato 6 settimane. Durante le 6 settimane i pazienti dovevano rispondere alle domande di un questionario. Sono stati ache monitorati alcuni parametri biologici ed infiammatori. É vero che dal questionario “sembra” che i pazienti percepiscano un miglioramento della qualitá della vita durante il periodo di assunzione dei grani antichi. É vero anche che i grafici riportati trend interessanti, ma certamente non un wow in termini di differenza. Putroppo i grafici basati sul questionario non riportano le deviazione standard dei punti, dove si sarebbe potuto capire la vera portata della differenza. Cosa che invece sembrano mostrare le analisi biochimiche, cioé variazioni ininfluenti. Sia per i parametri biochimici che quelli infiammatori “no significant difference was observed for all the investigated parameters after the intervention period with either the ancient or modern wheat products”. Cioé, in poche parole, la percezione soggettiva dei pazienti non é assolutamente confermata dai parametri clinici. Basta quindi la sola percezione dei pazienti per dire che i grani “antichi” hanno un qualsiasi effetto miglioratino dell’IBS rispetto ai grani “moderni”? Secondo il Prof. Spinsi, sembrerebbe proprio di si, altrimenti non avrebbe citato questo lavoro.
Conclusioni: consiglierei al giornalista che ha scritto l’articolo di scegliere bene gli esperti che intervista, soprattutto se vuole scrivere un articolo critico e che cerca di mettere in cattiva luce il lavoro di altri esperti.
Link: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4405706/
Oh, guardi caso l’articolo di Sofi che lei cita come primo esempio (quello finanziato da Kamut con soli 20 casi studio) come viene ripreso dalla stampa: https://www.altmetric.com/details/2122570/news
E anche quello della Whittaker…”A study published in 2016 in the European Journal of Nutrition found that by using KAMUT® brand khorasan wheat as an alternative to modern wheat, diabetic patients noticed a significant improvement in several key markers in the blood”
Ai tempi del “faraone R” convivevano sereni tutti i turgidi tritici:
Il dicocco, il turanico e il duro frutto di veri cambiamenti apocalittici,
genetiche mutazion da far sbiancare gli attuali critici.
Ma poi del duro i grandi Romani antici
diventarono colti estimatori e amici
e in Garfagnana il farro e in Lucania i turanici
lasciarono per pochi terren poco felici.
Il troppo benesser però crea come si sà vizi e caprici
e quel bel piatto di pasta sana non basta più agli italici
che indispettititi vanno alla ricerca di novità e cibi esotici
e il venticel della calunnia or soffia sui contenuti glutinici
ben sapendo che solo l’acqua non disturba mai i succhi gastrici.
Ma se proprio un grano strano dobbiam allor sorbirci
per sproloquiar saggezza e attualità all’amici
orben di Saragolle riempiam le pentole sino ai manici
che ancor senza furbo marchietto son molteplici
e le arse terre meridionali saran felici
che qualche liretta in più questi tic isterici
potran almen donare a quei tenaci ma stanchi villici
Bravo Fabrizio, chi ha detto che la scienza e la coltura non può essere anche poesia!?
Però aggiungo un limite alle potenzialità scientifiche oggi quasi illimitate, quello di non innestare sequenze genetiche animali, che si sono evoluti per non star piantati nella terra, in organismi vegetali.
Non per rispetto dei vegani (anche se ne hanno comunque tutti diritti), ma per rispetto dell’intelligenza umana.
In effetti tutti professori 🙂
Segnalo che parlo in qualità di agricoltore che coltiva (e mangia) grani “vecchi” da diversi anni e con soddisfazione non solo gustativa (visto che le farine da supermercato non sanno proprio di niente!) ma anche empiricamente di salute (eliminando i gonfiori addominali).
Quanto ai grani “locali”, vivaddio la Regione Emilia Romagna ha investito 200mila euro per dimostrarne la superiorità anche a livello nutraceutico se coltivati con metodo biologico/biodinamico
http://www.ilbiricoccolo.it/wp-content/uploads/2014/05/Relazione-Finale-Progetto-OIGA_Prof.-Dinelli1.pdf
6. PROPRIETA’ NUTRIZIONALI E NUTRACEUTICHE DELLE VARIETA’ OGGETTO DI STUDIO ED
EFFETTO DEI TRATTAMENTI BIODINAMICI
pag 12
Quanto alla FAO sottolineerei il fatto (in maniera del tutto banale eh) che si prende sempre come parametro di riferimento i consumi attuali: è folle continuare a pensare di utilizzare 2/3 delle terre per produrre cibo per animali e buttare nell’organico il 30% del cibo prodotto. Ma per quale ragione, io come agricoltore, devo essere spinto a produrre “di più” per buttare via un terzo di quello che, con enorme fatica, produco? Ecco di questi “Professori” qui ci sarebbe bisogno per spingere al massimo le persone “comuni” a questa presa di coscenza.
ANTICO > Vecchio> =tradizionale > locale e daje a declassare sto povero grano
C’è rimasto ancora “de’ noantri”….però
Mi spiace ma i professori che delegittimano con prosopopea arrogante secoli di progressi agrari e civili con panzane e slogan da post verità orecchiabile dovrebbero sapere che come gli “ibridi” neanche i grani “LOCALI” ESISTONO .
Il Cappelli e il Verna sono grani nati dalle sapienti capacità di scienziati italiani e diffusi da decenni su tutto il territorio nazionale e anche all’estero.
Il grano autoctono lo può trovare però nella Mezzaluna Fertile, una volta liberate Raqqa e Mosul.
In Italia venne importato (ahimè già da allora)
Ezio vai tranquillo!!! La FRAGOLA-PESCE- tuttora citata nell’opuscolo COOP (scaricabile) – fulgido esempio di utilizzo anche delle menzogne a fini di marketing – non e’ mai esistita. Alla faccia del rispetto dell’intelligenza umana.
Giancarlo se tu sei tranquillo buon per te, io un po’ meno, forse perché conosco le potenzialità e le conquiste delle biotecnologie, in grado di fare il taglia e cuci di qualsiasi patrimonio genetico, sia in campo sperimentale sia in quello applicato.
Nessun limite alla ricerca scientifica, ma alcuni principi devono essere mediati da altri cervelli e coscienze etiche e sociali.