Il pane prodotto con grani antichi è veramente più buono e più salubre di quello prodotto con grani moderni? E da cosa dipendono le caratteristiche fisiche, chimiche ed organolettiche del pane? Quali fattori influenzano la nostra percezione di consumatori? Per dare una risposta, un team di ricercatori del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) ha studiato l’interazione tra quattro importanti fattori della panificazione (genotipo di frumento, tecnica di macinazione, agente lievitante e tipo di cottura) e le proprietà chimiche, fisiche e organolettiche del pane, precisandone il ruolo nel determinare sapore ed odore. Alla conclusione dello studio, pubblicato dalla rivista Scientific Reports di Nature, la convinzione che il pane di grani antichi abbia un sapore o un odore migliore, rispetto a quello di grani moderni, appare destituita di fondamento.
Infatti, contrariamente a quanto comunemente si pensa, il genotipo grano antico o grano moderno risulta importante solo nel determinare l’aspetto e la consistenza della crosta e della mollica. L’effetto principale sull’alveolatura e sull’odore viene dall’agente lievitante (lievito di birra o pasta madre), mentre la cottura (forno a legna o a gas) ha un ruolo marginale. Sono quindi le tecniche di lavorazione della granella e degli impasti a rendere di fatto il pane veramente profumato e gustoso.
I ricercatori del Crea hanno utilizzato due varietà di grano duro: una antica con taglia alta e bassissimo indice di glutine e l’altra moderna con taglia bassa e alto indice di glutine. La granella ottenuta è stata quindi macinata con due diverse tecniche, lievitata con due diversi agenti e infine è stata cotta in due diversi tipi di forno, fino ad ottenere 16 tipologie differenti di pani, di cui sono stati analizzatigli odori, il contenuto proteico, l’indice di glutine, le ceneri, le fibre solubili e insolubili, il colore, il sapore, la consistenza della mollica, l’alveolatura, insieme ad una valutazione sensoriale dei pani.
Secondo il Crea, lo studio potrebbe avere ricadute dirette per l’industria di trasformazione (panifici, pastifici, industria dei dolci) consentendo lo sviluppo di nuovi prodotti con caratteristiche sensoriali ben precise ma soprattutto offre al consumatore uno strumento per operare delle scelte più consapevoli e, magari anche economicamente più convenienti, sottraendosi all’influenza di mode alimentari spesso dettate da disinformazione.
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Non tutto quello che è antico è buono, non tutto quello che è moderno è buono, non tutto quello che è naturale è buono, detto questo, non si può continuare a parlare di scienza dove scienza non c’è, la scienza è dubbio, non è certamente fede. Per quanto riguarda la scientificità e l’attendibilità degli studi scientifici, permettetemi di dubitare, per tanti anni di lavoro ho fatto l’auditor e ho verificato tantissimi laboratori scientifici e di ricerca, sono pochissimi i laboratori in grado di rispettare standard come Accredia, molte prove scientifiche se non cambia il sistema non valgono niente, senza contare che tantissime volte gli studi sono finanziati in evidente conflitto di interessi.
Mi sembra invece che in questo lavoro la scienza ci sia e non a caso è stato accettato e pubblicato da rivista con revisori internazionali.
Sicuramente chi non si fida più del metodo scientifico non propone però nulla di alternativo, se non ribadire fake-news, post verità e il bel tepore del luogo comune rassicurante.
Non so ancora per quanto, ma la revisione scientifica internazionale è più credibile di tanti like e pollici alzati coraggiosamente sul web dalle masse forcaiole facilmente indignabili e indirizzabili.
In un’intervista al Corriere della Sera, Marina Carcea, dirigente tecnologo del Crea, che ha condotto lo studio, afferma che dal punto di vista della salute “i grani antichi, che pure oggi vanno molto di moda, non sono affatto da preferirsi necessariamente. Il loro recupero va interpretato, più che in un’ottica d’ salute, come un processo interessante per la tutela della biodiversità e della varietà di alimenti”.
Spero che qualche commentatore abbia letto almeno la sintesi, che riporto, dello studio di cui si discute pubblicato su Nature:
“La macinazione ha la precedenza su cultivar, agente di lievitazione e modalità di cottura su tratti chimici e reologici e percezione sensoriale del pane di grano duro.”
Donatella Bianca Maria Ficco, Sergio Saia, Romina Beleggia, Mariagiovanna Fragasso, Valentina Giovanniello e Pasquale De Vita.
“L’odore e l’aroma sono fattori determinanti per l’accettazione da parte dei consumatori, in modo da ottenere una visione più approfondita la percezione dell’odore e dell’aroma del pane è un obiettivo di ricerca.
Sedici combinazioni di quattro variabili erano studiate, per valutare i contributi del pane chimico e delle proprietà reologiche e volatili composti organici (VOC) verso l’accettabilità sensoriale dei pani: genotipi (landrace vs. moderno); tipi di farina (integrale rispetto alla semola); agenti lievitanti (lievito di birra rispetto al lievito madre); e modalità di cottura (a gas rispetto a legna).
La macinazione ha avuto il maggiore impatto sugli altri trattamenti per le proprietà reologiche e chimiche, incluso per i COV, con grande impatto sui tratti sensoriali delle farine e il pane.
Le fasi di lavorazione hanno avuto un grande impatto sull’olfatto e sull’aroma, come definito attraverso
formazione di alcoli, aldeidi, terpeni e altri composti (ad es. etilbenzene, 2-pentilfurano,
metossifenilossima).
L’agente lievitante ha avuto un grande impatto sulla percezione sensoriale, nonostante il pane dal lievito madre venivano percepiti come con sapore e colore inferiori rispetto al lievito di birra.
La modalità di cottura non ha avuto alcun ruolo rilevante sulla percezione sensoriale.
Questi dati minano fortemente la credenza di un “prodotto migliore” che viene spesso attribuito ai vecchi genotipi rispetto alle cultivar moderne e indica che i processi di macinazione e di panificazione determinano la qualità del prodotto finale.”
Io ho compreso, e correggetemi se sbaglio, che nello studio pubblicato si parla esclusivamente del profumo/odore del pane prodotto con differenti farine e non si tratta di ne di sapore da assaggio, ne tanto meno di caratteristiche nutrizionali e salutistiche, di cui parla la dirigente del Crea Marina Carcea.
Non intendo contestare queste affermazioni, di cui dovrà dimostrare l’evidenza scientifica e medica, ma segnalare che non hanno attinenza ne origine dallo studio eseguito e pubblicato su Nature.
Iio faccio il pane con semola di grani antichi siciliani in un banalissimo forno da cucina con un altrettanto banalissimo lievito di birra.Vi posso assicurare che già l’odore durante la cottura è diverso da quando,vivendo in Germania,finisco le scorte e devo usare semola di grano duro “normale” per panificare.Non so cosa abbiano usato i Signori CREA,ma li invito volentieri a casa mia così già che ci siamo insegno loro come si usa il naso e le papille gustative.tutto il ragionamento sul più salutare o meno salutare è solo uno specchietto x le allodole.chi mangia il pane pensando alla relazione tra amidi e proteine,nn lo si fa x la pasta,figurarsi x il pane!!!Oltre a ciò,il pane che faccio,lo mangio fino all’ultima bricciola e mi dura una settimana senza problemi.! Kg di farina di tumilia costa 2,50€ mi basta x 2 volte (siamo solo mio marito ed io) e,come detto mangiabile 1 settimana!!!!Dove trovano i Signori della Crea un pane così???
Signora Michela, l’esperienza che ha quando cucina il suo pane è proprio quello che i ricercatori hanno riscontrato, forse bastava leggere più attentamente e non fermarsi ai soliti pregiudizi.
La sua semola di Timilia è sicuramente macinata a pietra e pertanto non abburattata, contiene la crusca e il germe. La semola normale che usa è “raffinata”.
Il suo risultato è scientificamente differente per i motivi sopra citati e non per l’antico o il moderno.