Quest’anno per la terza volta il raccolto italiano di olive è stato disastroso. Si parla di 200 mila tonnellate, una quota ridicola rispetto a 1,6 milioni di tonnellate della Spagna senza considerare Marocco e Grecia … Si tratta di una situazione che abbiamo già vissuto nel 2014 e nel 2016. Ogni volta la crisi di produzione è stata risolta con un incremento delle importazioni di olio extravergine. Allora come oggi non c’è stato alcun problema per i consumatori, che al supermercato possono scegliere tra le bottiglie di olio 100% italiano (presentato di solito con diciture molto vistose sul frontespizio dell’etichetta) e quelle ottenute miscelando olio nazionale e importato. Anche in questo caso l’etichetta riporta con caratteri tipografici meno evidenti una delle seguenti frasi “miscele di oli di oliva comunitari”, “miscele di oli di oliva non comunitari” o “miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari”.
Si tratta di diciture obbligatorie in vigore dal mese di luglio del 2009 in virtù del Regolamento UE n°182. La differenza tra le varie bottiglie si rileva facilmente osservando il prezzo. Il nuovo olio italiano (non quello Dop) all’ingrosso viene venduto a 5-6 €/kg ovvero il doppio rispetto a quello importato 2,5- 3,0 €/kg. Anche sullo scaffale la differenza è evidente 8 -11 €/litro per quello italiano contro 5-6 € /litro per l’olio nazionale miscelato con partite provenienti da Paesi UE e non UE.
L’allarmismo di Coldiretti sull’olio extravergine
Per il consumatore sbagliare è davvero difficile. Perché allora Coldiretti, che ha sempre teorizzato la necessità di un’etichetta di origine, ora che esiste agita lo spauracchio delle frodi e delle truffe ai danni dei consumatori. La lobby degli operatori del settore diffonde comunicati dicendo che due bottiglie di olio su tre sono straniere, quasi fosse una novità e non una regola, lascia intendere che il prodotto italiano è migliore e ha probabilmente ragione, tant’è che costa quasi il doppio, ma dimentica di dire che l’85% circa delle bottiglie vendute al supermercato è composto da miscele di olio italiano e straniero. Dimentica di dire che senza la materia importata buona parte delle aziende imbottigliatrici potrebbe chiudere. Dimentica di dire che la materia prima italiana sta diventando una quota poco rilevante sul mercato, che si tratta di una situazione normale negli ultimi anni.
Ma allora perché allarmare le persone? Gli ultimi problemi che hanno coinvolto grandi marchi come Carapelli, Bertolli, Sasso… risalgono al 2015 e non riguardavano l’origine ultimamente ma la denominazione. Sul fronte delle inchieste o delle segnalazioni non ci sono elementi nuovi da parte dei Nas e dell’Icqrf del Mipaaft.
Le frodi però esistono
Vero è che le frodi commerciali sull’olio esistono da almeno 50 anni e che sono state portate avanti da aziende 100% italiane abituate a miscelare oli di semi e altri di minor valore commerciale all’extravergine. L’ultima grande truffa recente è durata anni e riguardava l’imbottigliamento di olio difettoso deodorato venduto come extravergine. Poche le inchieste, giornalistiche o giudiziarie, che invece hanno riguardato truffe sull’origine dell’olio, una contraffazione che ancor oggi è dura da sconfiggere dalle autorità di controllo, visto che mancano analisi ufficiali in grado di smascherare eventuali condotte fraudolente. Più facile che siano i consumatori a vincere la battaglia, diffidando di bottiglie proposte a prezzi troppo bassi, comunque inferiori a quelli di acquisto all’ingrosso dell’olio extravergine d’oliva.
Dietro l’allarmismo di Coldiretti c’è un problema reale per la carenza sistematica di olio italiano. Si tratta di una questione strutturale che va risolta a livello politico, non certo lanciando allarmi inutili e pretestuosi ai consumatori per ottenere finanziamenti dai ministeri. “Serve un piano oleario serio – spiega Alberto Grimelli direttore di Teatro Naturale, sito considerato un riferimento per tutto il settore – la crisi è provocata da tre elementi: gli ulivi italiani sono vecchi, buona parte dei produttori ha più di 60 anni, opera su superfici piccole ed è destinata a diminuire. Si tratta di criticità che vanno risolte altrimenti la situazione continuerà a peggiorare”
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Giornalista professionista, direttore de Il Fatto Alimentare. Laureato in Scienze delle preparazioni alimentari ha diretto il mensile Altroconsumo e maturato una lunga esperienza in test comparativi. Come free lance si è sempre occupato di tematiche alimentari.
L’allarme lanciato da Coldiretti, come da tante altre associazioni di categoria, circa lo stato dell’olivicoltura italiana, è fondato: forse un po’ tardivo. Per decenni non c’è stata nessuna consapevolezza del progressivo stato di abbandono degli oliveti in Italia. In Umbria oramai il famoso “oro verde”, è prodotto in gran parte da pensionati, quindi una platea che per forza di cose, è destinata a restringersi sempre più. Occorrerebbe che da parte dei governi a tutti i livelli, si metta in atto una politica di aiuto anche a quei produttori hobbisti, che specie nel centro Italia, sono la maggioranza dei produttori e del mantenimento degli oliveti. E invece come accade in Umbria da decenni, nei confronti di questi ultimi, sono state messe in atto delle vere e proprie politiche ostruzioniste. Impedendogli di fare qualsiasi cosa in nome dell’ideologia fobica ambientalista. Il risultato che le nostre colline sono sempre più abbandonate, sempre più il territorio resta privo di quella funzione di governo rappresentata dalla mano sapiente dell’uomo che per secoli aveva agito. E’ venuto meno il presidio del territorio, la sua manutenzione. Risultato? che quando piove (al diavolo le teorie sulle bombe d’acqua), il temporale non trova più i solchi, i ruscelli di collina che da sempre facevano affluire la pioggia torrenziale a valle in modo ordinato. Qui in Umbria, è stata fatta una lotta feroce attraverso la Legge 10 del 2005, agli hobbisti dell’orto, del piccolo oliveto, impedendo a quanti ancora dopo il lavoro, preferivano passare le domeniche tra i propri fazzoletti di terra, di realizzare piccoli annessi rurali all’interno dei quali ricoverare i propri attrezzi. Abbiamo così assistito ad un abbandono sempre più marcato e a una svalutazione economica degli appezzamenti stessi. Occorre ricostruire una cultura per la terra, riedificare quel tessuto sociale che per millenni ha presieduto il territorio collinare del Bel Paese. Tornare a produrre olio di qualità (e le colline del Centro Italia ne sono la condizione insuperabile), se non si vuole ridurlo a uno slogan formale, vuol dire impegnarsi fino in fondo da parte delle Istituzioni, affinché le aziende certo, ma anche quell’esercito silenzioso formato da migliaia di cittadini privati, trovi conveniente riappropriarsi di quei terreni erroneamente classificati marginali. Così come elevare la cultura scientifica è indispensabile, a questo proposito, va riconosciuto che i tanti corsi per ottenere il tesserino, hanno dato un contributo notevole a questo riguardo.
Il suo discorso è corretto ed è un problema politico da affrontare con il Mipaaft. Coldiretti però va ben oltre, e si rivolge ai consumatori dicendo di stare attenti all’olio che si vende al supermercato che, nonostante la presenza dell’etichetta di origine chiara, potrebbe essere miscelato con olio straniero e questo nonostante la maggior parte dell’olio venduto in Italia sia straniero. Coldiretti fa un discorso allarmistico del tutto ingiustificato
Concordo, apprezzo e mi unisco all’appello di Renato sui disagi del settore olivicolo italiano, che purtroppo non è il solo settore in grande difficoltà, ma purtroppo in buona compagnia con molti altri comparti della filiera agroalimentare italiana.
Centrato il problema dei piccoli coltivatori, ma che sono tantissimi a mantenere ancora vivo gran parte del territorio scomodo e poco redditizio, anche solamente per la passione il legame e l’identificazione con la propria terra, non certo per la resa economica inesistente.
In Liguria per salvaguardare un territorio degradato per abbandono, hanno dovuto istituire dei parchi protetti, ma purtroppo ancora insufficienti per evitare frane disastrose.
Nel nostro paese serve una politica di conservazione e sviluppo delle aree agricole minori, che sono al contrario maggiori per estensione totale, perché di Pianura Padana ce n’è una sola e poco altro nel resto d’Italia.
Quindi colture specifiche e specializzate, anche e soprattutto biologiche e biodinamiche per recuperare un po’ di redditività, ma soprattutto supporto istituzionale ed organizzativo in cooperative, per la commercializzazione anche diretta dei prodotti coltivati e trasformati direttamente nei presidi locali, caratterizzanti l’origine regionale delle produzioni.
Se questo governo è come si professa del cambiamento, lo vedremo anche e soprattutto in queste problematiche di conservazione e valorizzazione del territorio e delle nuove leve giovanili da sostenere anche in agricoltura moderna e tipicamente di qualità italiana.
Contrariamente al La Pira, ritengo che tutte le associazioni di categoria dovrebbero alzare la voce all’unisono, come fa Coldiretti anche sopra le righe ma non a sproposito, per cambiare questa situazione disastrata della nostra agricoltura da molte mani e decenni di politiche miopi e lobbistiche a favore di un commercio selvaggio e scorretto, soprattutto delle Gdo.
Nessuno parla però dei danni,anche pesanti, che l’Olivicoltura annualmente subisce . Ultimo e molto pesante in ordine di tempo la neve e le gelate dello scorso anno. Interi Oliveti cresciuti con sacrificio, attenzione continua e tante spese bruciati in pochi giorni e su questo…un silenzio assoluto. Nel mio piccolo ho avuto un danno enorme. Ca 300 piante seccate totalmente da tagliare a livello terra, molte di esse da ripiantare totalmente.Altre 250 bruciate parzialmente che necessitano di un lavoro di taglio specifico, settoriale. Il tutto impegna una mancata raccolta di ca 10 anni e una spesa ,però, continua nello stesso periodo di tempo. Ma di tutto questo …nulla. Nessuno ne parla. Ne il Governo attuale ne quello precedente. Ancor meno le Regioni. Quasi ogni anno si verifica la presenza della cd mosca olearia che comporta un grave danno e riduzione della produzione se non il vero e proprio azzeramento, e questo avviene ,in particolare, laddove vi è una assenza di trattamenti comunque definibili e molti dei quali fortemente dannosi per la salute dei consumatori,come nel mio caso. In sostanza l’abbandono di quei territori collinari di cui si parlava nasce anche da questo, se non principalmente. Il lavoro agricolo è duro, impegnativo, costoso e sempre sub iudice delle variazioni meteo, della richiesta del mercato e della concorrenza sleale di prodotti importati che spesso sono di dubbia salubritá. Penso a quelli importati dal nord Africa ma anche da Spagna e Grecia. Ecco, mettiamo sulla bilancia queste reali situazioni in primis, di come cioé una piccola/media azienda possa sopravvivere , poi possiamo parlare dei massimi sistemi. Delle lobby, della Coldiretti invisa a qualcuno e di piani governativi che non trovano ne troveranno alcun riscontro.
Vi seguo da anni e ho sempre apprezzato le vs importanti informazioni. In qualche occasione ho fatto dei commenti che però non ho visto pubblicati. Non vorrei si ripetesse lo stesso ora. Nel caso ne trarrei le conseguenze insieme ad altri amici e colleghi con cui discutiamo del vs giornale e con I quali condivido la stessa attivitá.
Ma che c .osa ha fatto finora Coldiretti, soprattutto nei decenni passati quando la situazione attuale era molto facilmente ipotizzabile dati i trend, per modernizzare la produzione olivicola attraverso stimoli al sistema agricolo per lo svecchiamento delle piantagioni di olivi, e per una razionalizzazione tecnologica ed economica dell’intero comparto, se non limitandosi alle solite chiacchiere e a demonizzare la concorrenza, che invece ha sfruttato a pieno i fondi europei ritrovandosi ora in enorme vantaggio?
Le associazioni servono a questo, non per mantenere il loro staff e per cercare voti per il politico di turno.
Ora c’è da scommettere che Coldiretti dichiarerà di “averlo detto per prima”
Il guaio italiano sta’ nella frammentazione, non solo degli operatori nei vari settori nessuno escluso, ma soprattutto nella frammentazione politica delle rappresentanze sindacali e di settore.
Questa situazione di parrocchie politiche spesso concorrenziali tra loro, impedisce ad ogni settore di essere compatto e rappresentativo, quindi perdente in partenza.
Meno politica, meno poltrone parassitarie, più unità d’intenti e programmi d’interventi condivisi da portare ai governanti con una sola voce, quella di chi lavora e produce, non chiacchiere dispersive inconcludenti e dissonanti.