Usare l’olio di frittura al posto del palma per produrre il biodiesel, è l’obiettivo che si è posta Eni, per realizzare carburanti green con un minore impatto ambientale. La produzione è già attiva nella bioraffineria di Porto Marghera, a Venezia, e in futuro dovrebbe iniziare anche in quella di Gela, dove si sta sperimentando anche l’uso delle alghe. Una scelta arrivata insieme alla decisione dell’Unione europea di eliminare totalmente l’olio di palma dai biocombustibili entro il 2030 (il grasso tropicale non potrà più essere considerato una materia prima sostenibile e rinnovabile).
Secondo la nuova direttiva (Ue) 2018/2001 sulle energie rinnovabili, adottata nel dicembre 2018 dal Parlamento e dal Consiglio europeo, entro il 2030 almeno il 32% dell’energia totale e il 14% di quella consumata per i trasporti, compresi i carburanti, dovrà essere prodotta da fonti rinnovabili. Nella lista non figurano però materie prime organiche che causano deforestazione e grandi quantità di emissioni di carbonio, come avviene per buona parte dell’olio di palma. Secondo la normativa, le materie prime per la produzione di combustibili green non possono provenire da terreni ad elevato valore di biodiversità (come le foreste tropicali), che trattengono grandi quantità di carbonio o da torbiere.
Dal 2021 la quota di palma utilizzabile non potrà essere superiore a quella registrata nel 2019, poi dal 2023 al 2030 scenderà progressivamente, fino ad azzerarsi. I limiti all’olio di palma sono stati confermati anche dalla Commissione europea in una bozza di regolamento attuativo, da approvare entro la fine del 2019 e per cui si sono concluse le consultazioni lo scorso 8 marzo. Tuttavia, denunciano le associazioni ambientaliste, la Commissione lascia alcune scappatoie all’uso del grasso tropicale: è concessa infatti un’eccezione per l’olio prodotto in piccole piantagioni (2-5 ettari) o su terreni che non sono stati sfruttati per cinque anni.
In Italia, il 95% del biodiesel è prodotto a partire dal grasso tropicale e, fino ad ora, anche Eni ha utilizzato soprattutto olio di palma – 360 mila tonnellate l’anno, che diventeranno 600 mila quando lo stabilimento lavorerà a pieno regime – per realizzare biocarburanti. Da qui è nata l’esigenza di trovare materie prime alternative, che non siano anche utilizzate per l’alimentazione umana, come gli oli vegetali e i grassi animali esausti prodotti dalle cucine domestiche, dai ristoranti e dalle aziende alimentari. Attualmente, Eni utilizza già il 50% degli oli di scarto recuperati per produrre biocarburanti, ma è solo una piccola parte di quanto se ne produce.
Ogni anno in Italia si producono circa 280 mila tonnellate di oli esausti di frittura e/o di conservazione dei cibi. Di queste, nel 2018, ne sono state recuperate solo 75 mila e quasi tutte dalla ristorazione e dall’industria. Tutto il resto degli oli di scarto si trovano nelle nostre case e, per la maggior parte, finiscono negli scarichi domestici, perché i cittadini non sanno come smaltirli correttamente. Un malcostume che può causare gravi problemi ambientali (inquinamento delle falde acquifere e delle acque superficiali), danni agli scarichi e ai depuratori, nonché la produzione di fino a 4 kg di fanghi di depurazione per litro d’olio, da smaltire come rifiuti.
Per incentivarne il recupero, Eni ha avviato alcune belle iniziative, come la raccolta degli oli esausti prodotti nelle case dei dipendenti delle sedi di Porto Marghera, Taranto e Roma, mentre a Venezia sono stati installati 400 contenitori stradali a disposizione di tutti i cittadini. Inoltre, oli e grassi di scarto possono essere conferiti nelle isole ecologiche o nei raccoglitori installati in alcuni supermercati sparsi in Italia. Se tutte le famiglie facessero così, si potrebbe ridurre l’inquinamento causato dall’olio smaltito in maniera sbagliata e diminuire l’impatto ambientale dei biocarburanti, dando nuova vita a materiali di scarto, rispettando in pieno i principio dell’economia circolare.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.
“e, per la maggior parte, finiscono negli scarichi domestici, perché i cittadini non sanno come smaltirli correttamente. ”
no, più precisamente non c’è la possibilità di smaltirli correttamente. Qui a Milano, per esempio, ci sono le campane condominiali per vetro, plastica e metallo, raccolgono indifferenziato e umido separatamente ma non esiste una raccolta dell’olio “di frittura”.
Io non abito a Milano da tempo, ma come scrivono sul sito dell’Amsa: “è possibile recuperarlo e consegnarlo nei supermercati aderenti all’iniziativa, nelle Riciclerie o nei CAM. Dopo averlo raccolto in bottiglie di plastica ben chiuse, inseriscile direttamente nell’apposito contenitore presente in alcuni supermercati COOP, Simply, Carrefour e Il Gigante.”
Mi pare che le possibilità di fare la cosa giusta, quindi, ci siano.
Faccio fatica a credere che “i cittadini non sappiano come smaltire correttamente l’olio” delle fritture e quindi lo buttino nello scarico. Se non lo sai, lo chiedi, non è difficile.
Se vai nei supermercati Coop ci sono dei contenitori, se vai all’ecocentro pure … puoi chiedere ad un parente, ad un amico, al tuo Comune, ma che non mi si dica che uno non sa che fare ed allora fa la cosa sbagliata.
Questa non è ignoranza (nel senso di non sapere(), ma pigrizia e menefreghismo.
a Roma non ci sono abbastanza punti di raccolta, farmi 20 min di macchina per far smaltire 1 lt di olio ha poco senso. Le isole ecologiche sono poche e spesso chiuse o a pieno carico.
Se vogliamo fare un discorso serio bene, se invece vogliamo fare i “bastian contrari” a prescindere, ditelo.
Io a casa raccolgo l’olio usato in una tanica da 5 litri, quelle dell’acqua distillata per capirci, ed una volta piena si va all’Ecocentro o dove si vuole. Credo che sia alla portata di tutti comportarsi così.
Speriamo che Eni incentivi questa pratica con buoni carburante, visto che il nostro olio diventerà un guadagno per loro.
ma a parte tutto continueranno a farci inquinare con combustibili , non fossili ma pur sempre inquinanti
Il problema , secondo me irrisolvibile, se non a livello industriale e di grande ristorazione con obblighi stringenti, è dato dallo spaventoso frazionamento delle origini dell’olio di frittura che nell’ambito domestico, anche con buona disponibilità dei singoli, non è prodotto con frequenza e quantità sufficiente ad una programmazione di raccolta ragionevole sia per costi che di logistica.