Non sono solo frutta e verdura ad avere una stagionalità. Ci sono anche altri alimenti che vengono consumati prevalentemente in estate o, invece, in inverno. In questi casi il picco stagionale dei consumi non deriva dai tempi di maturazione, ma da aspetti diversi, come le alte o basse temperature, che rendono più o meno piacevole mangiare certi prodotti. Se è chiaro che, di solito, in estate si compra più riso per insalate e in inverno si compra più polenta, anche la mozzarella ha una sua stagione di picco, che è l’estate. Parliamo quindi di mozzarella, regina di tanti piatti estivi e ingrediente principale (in termini di peso) nella farcitura della pizza Margherita, anche secondo le indicazioni dell’Associazione verace Pizza napoletana.
Prima di tutto va chiarito che la parola mozzarella non indica un prodotto unico. “Si tratta piuttosto – spiega Michele Faccia, professore ordinario di Scienze e tecnologie alimentari, esperto in tecnologia lattiero-casearia all’università di Bari – di un termine generico, utilizzabile per tutti i formaggi a pasta filata (indipendentemente dalla tipologia di latte e dalla forma) con un livello di umidità medio o alto (negli Usa il minimo è 45%, il massimo 60%, mentre in Europa non c’è un preciso limite di legge, ma nella pratica i valori sono gli stessi), e una struttura a fibre allungate, senza granulosità all’interno”. Anche se nasce dalla tradizione casearia del sud Italia, la mozzarella può essere prodotta in tutto il mondo, ne sono un esempio importante gli Stati Uniti, dove i consumi sono molto alti, soprattutto per la presenza di numerose catene di pizzerie. Ben diverso è invece il discorso se si parla di prodotti con denominazioni specifiche, che garantiscono l’origine.
In Italia si produce una sola mozzarella di latte vaccino Dop, la nuova Mozzarella di Gioia del Colle, che ha ottenuto la denominazione d’origine nel 2020. Poi c’è il Fior di latte di Agerola, classificata come Prodotto agroalimentare tradizionale (Pat) della regione Campania e infine la Mozzarella Specialità tradizionale garantita (Stg). A queste si aggiunge l’unica mozzarella Dop di bufala: la Mozzarella di bufala campana. I prodotti con denominazioni geografiche sono riconoscibili da precisi marchi presenti sul prodotto, sulla confezione o presso il luogo di vendita ed è quindi difficile sbagliarsi.
Fatta questa distinzione è importante capire quali sono le loro caratteristiche. Partiamo dalla Mozzarella di bufala campana, fiore all’occhiello della nostra produzione. I punti fondamentali della lavorazione sono comuni a quelli della mozzarella vaccina (coagulazione, rottura della cagliata, maturazione, filatura e formatura), ma la materia prima vanta caratteristiche uniche. Ricordiamo che questo formaggio può essere fatto solamente con latte fresco intero di bufale di razza mediterranea italiana allevate in un’area che comprende per il 90% le provincie di Caserta e Salerno, a cui si aggiunge una piccola quota dal basso Lazio (provincie di Latina, Frosinone e Roma), dalla Puglia (Foggia) e il comune di Venafro, nel Molise.
Il latte deve diventare Mozzarella di bufala campana Dop entro 60 ore dalla prima mungitura. “Dal 2004 – ricorda Pier Maria Saccani, direttore del Consorzio di tutela – la tracciabilità della filiera del prodotto è totale, dalla stalla alla tavola. Si può sapere precisamente con quale latte è stata prodotta ogni singola mozzarella. Inoltre, il prodotto è soggetto a circa 15 mila controlli l’anno, fatti non solo dal Consorzio, ma dai vari organi preposti. Un altro elemento che differenzia la lavorazione è la tecnologia di filatura che vede ancora un numero importante di aziende mozzare con le mani i singoli pezzi. Infine, le Mozzarelle di bufala campana, una volta formate e rassodate, vengono adagiate in vasche con una soluzione salina dove, a seconda della loro dimensione, restano immerse per un periodo variabile, fino al raggiungimento della sapidità ottimale”. Un altro aspetto distintivo è il metodo di acidificazione. Nella lavorazione dei prodotti a pasta filata, oltre a latte, sale e caglio, è necessario un acidificante, che consente la filatura del formaggio. Nella Mozzarella di bufala campana Dop quest’acidificazione può essere ottenuta solo attraverso il sieroinnesto, un innesto di batteri lattici proveniente dal siero della lavorazione del giorno precedente. Tale sistema conferisce al latte e al formaggio, un bouquet di aromi tipico (il concetto è simile alla funzione del lievito madre per la produzione di pane tradizionale).
È però possibile produrre mozzarella di bufala anche senza impiegare il marchio Dop. In questo caso, purché venga utilizzata la denominazione “mozzarella di latte di bufala”, la produzione può avvenire in qualsiasi territorio e la tecnica di acidificazione è libera. Per la produzione vaccina la situazione è più complessa e variegata. Nella produzione della neonata Mozzarella di Gioia del Colle Dop l’acidificazione deve essere fatta con sieroinnesto e si indica l’uso del sieroinnesto anche per la produzione del Fior di Latte di Agerola. Per la mozzarella Stg va impiegato il lattoinnesto. Per il resto della produzione l’acidificazione è libera e si può fare utilizzando innesti autoctoni di batteri lattici come quelli usati per le produzioni tipiche, ma anche fermenti selezionati liofilizzati oppure acidi organici (il più usato è l’acido citrico). Quest’ultimo sistema è più rapido e sicuro dal punto di vista igienico (se accoppiato alla pastorizzazione del latte) e per questo risulta anche il più usato dalla grande industria, ma il risultato finale è una mozzarella con una minore ricchezza e variabilità di sapori.
Diversa è la questione del prodotto denominato “fior di latte”, senza altre specificazioni. In questo caso anche se normalmente si intende una mozzarella di latte vaccino di forma sferoidale da consumare freschissima, la denominazione ha solo carattere commerciale e può essere usata persino per la cosiddetta mozzarella per pizza. Quest’ultima è un prodotto diverso dalla mozzarella comunemente intesa, detta anche ‘da tavola’. Innanzi tutto la mozzarella per pizza non viene venduta immersa nella sua acqua. “Inoltre – spiega Faccia – ha una consistenza più soda, una maggiore durata di conservazione, contiene meno acqua (circa il 50%) e grasso (10-15%). Negli Stati Uniti la distinzione tra i due tipi di formaggio è marcata anche da una diversa denominazione. Abbiamo da una parte il pizza cheese, che si definisce anche mozzarella Lm (Low moisture, cioè a bassa umidità), dall’altra parte c’è la mozzarella Hm (High moisture, cioè ad alta umidità) con il 52-60% di umidità e il 18-20% di grasso”.
L’impiego piuttosto diffuso del prodotto più asciutto per la pizza si deve all’esigenza di evitare che il formaggio ‘bagni’ l’impasto, rilasciando acqua e grasso in cottura. Non in tutti i casi, però, si ‘rischia’ di trovare sulla pizza il prodotto a bassa umidità. Nella Pizza verace napoletana si richiede l’impiego della mozzarella di tipo tradizionale, sia essa con denominazione specifica legata all’origine e alla lavorazione oppure no. L’associazione che tutela la Pizza verace raccomanda piuttosto di non tritare la mozzarella prima di metterla sulla pizza, ma di lasciarla a fette o a striscioline di dimensioni tali da conservarne la struttura. In tal modo, grazie la cottura rapidissima, le fettine sono in grado di ‘trattenere’ al loro interno gran parte dell’umidità del formaggio.
Tutti i formaggi di cui abbiamo parlato possono avere usi o assecondare gusti differenti ma, come confermano le differenze di prezzo, le differenze sono anche significative. Oggi la parola mozzarella viene comunemente usata con una certa superficialità per indicare prodotti diversi e questo non aiuta a fare una scelta consapevole. Per comprendere il valore del prodotto acquistato bisogna quindi anche in questo caso leggere attentamente l’etichetta, per vedere se riporta o meno l’impiego dell’acido citrico e controllare se si tratta di una specialità Dop, Stg o Pat.
© Riproduzione riservata; Foto: Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana Dop, AdobeStock, Fotolia, iStock
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