È necessario avere una certificazione per dichiarare che un prodotto è 100% “made in Italy”? In un periodo come quello attuale, di crisi economica è logico guardare a nuovi mercati per mantenere l’occupazione. Le certificazioni a disposizione sono molte, di fatto è sufficiente registrare uno schema per poterlo proporre ai clienti, approfittando delle congiunture e dell’ingenuità diffusa.
Per questo vale la pena fare alcune considerazioni. Le dichiarazioni quali “Made in Italy” e “100% Made in Italy” rimangono soggette alle legislazioni e interpretazioni vigenti nei mercati di destinazione. In tutti i Paesi aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio (o WTO, ‘World Trade Organization’) vige la regola, definita nel Trattato istitutivo, secondo cui l’origine di un prodotto la cui realizzazione abbia avuto luogo in più paesi si identifica in quello ove è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale. È perciò quasi universalmente accettata la dicitura “Made in Italy” su alimenti preparati in Italia a partire da materie prime di varie origini.
La legittimità di diciture quali “interamente realizzato in Italia” o “100% Made in Italy”, d’altra parte, va verificata, come abbiamo detto, in relazione alle norme e alle interpretazioni vigenti nei paesi ove il prodotto viene commercializzato. È necessario tener conto sia delle regole generali a presidio della corretta informazione del consumatore e di quelle applicabili al singolo settore merceologico, sia delle sensibilità che variano da paese a paese. Il valore di ogni certificazione è essenzialmente legato all’estensione territoriale del riconoscimento. Anzitutto, il privilegio va agli standard internazionali – quali ISO 22005:2008, sulla rintracciabilità dei sistemi alimentari – rispetto ai numerosi schemi privati e/o locali di certificazione. In secondo luogo, va considerata la reputazione internazionale dell’ente di certificazione.
Dario Dongo
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Avvocato, giornalista. Twitter: @ItalyFoodTrade
Con la scusa dell’occupazione e del business in genere abbiamo maiali che dopo aver varcato la frontiera diventano Prosciutto di Parma, latte che diventa mozzarella Campana, etc. etc.
Penso che qualunque consumatore vorrebbe aver il maggior numero di informazioni possibili su quello che mangia per poi poter scegliere. Invece l’orientamento generale, spinto dalle lobby delle multinazionali e dell’industria in genere è contrario: lasciateci fare gli affari nostri, decidiamo noi quanto è necessario che sappiate.
Non è proprio come dice , perchè la mozzarella di bufala campana Dop deve essere prodotta con latte locale
con
“Dovrebbe” essere prodotta con latte locale….
La bufala viene prodotta con latte prodotto all’interno del consorzio, quindi pure Roma e Grosseto, ma le bufale, spesso, vengono portate in età da latte in altre regioni, come Puglia, Basilicata ed Abruzzo e poi comprate da aziende produttrici di mozzarella DOP.
Il prosciutto di Parma, come anche il Toscano DOP, il Norcia IGP ecc., derivano da suini nati, allevati e macellati in Italia.
I disonesti esistono ovunque, e fanno di tutto per aggirare le norme a proprio vantaggio. Esistono però anche i produttori onesti, e sono la maggioranza, scrivere che i maiali varcano la frontiera e diventano prosciutto di Parma scredita tutti i produttori di prosciutti derivanti dal cosiddetto “suino pesante nazionale”, ed è una generalizzazione inutile e pericolosa.
Un po’ come dire che i vinificatori adulterano il vino, perché qualcuno l’ha fatto, che gli alimenti biologici sono pieni di pesticidi, perché qualcuno li utilizza, ecc.
Sul discorso 100% made in Italy penso che qualunque affermazione in etichetta deve essere dimostrata.
Asseverare le proprie dichiarazioni con la Certificazione di terza parte è sicuramente la via migliore per dimostrare la propria credibilità.
Purtroppo non è cosi, e la cosa non mi fà certo piacere. Basterebbe confrontare, ad esempio, la quantità di cosce di prosciutto di Parma prodotto ed il numero di maiali allevati nella zona, si scoprirebbe che i maiali dovrebbero avere 12 cosce ciascuno….
bisognerebbe provare a fare come si faceva una volta ….. avere un maggiore contatto con “piccole produzioni locali ”
conoscendo chi produce e come produce
per potersi salvaguardare da queste frodi (e che cmq potrebbero capitare lo stesso tra l’altro).
da questo punto di vista ben venga lo sforzo di Slow Food nel promuvere e tutelare sia le attività di chi produce che nell’educare chi acquistal!!
La confusione normativa regna sovrana la dove non si vuole semplicemente normare l’ovvio, a favore di pochi grossi e grassi operatori, nemici del Made in Italy che sfruttano.
Ma fin qui tutto comprensibile con la speculazione dell’interesse privato, ma dove sono i garanti dell’interesse pubblico?
Il made in italy ha la funzione di definire l’origine delle lavorazioni x ai fini doganali.
il 100% made in italy ed i dop doc igp etc.. servono a dichiarare l’integrale provenienza dei prodotti e delle lavorazioni
la certificazione 100% made in italy tipo IT01 rilasciata dall’Istituto tutela Produttori Italiani oltre all’origine, rilascia su conferma di”terzi”,una garanzia di qualità prodotto