Il latte vegetale (di avena, riso, soia…) ha incontrato un successo crescente, negli ultimi dieci anni. I consumatori li apprezzano perché li associano a un impatto ambientale migliore rispetto al latte vaccino, e a qualità nutrizionali da molti ritenute superiori. Se la prima affermazione è senza dubbio vera, perché i bovini da latte costituiscono una porzione molto rilevante di quelli allevati, la seconda non lo è, e i dati, comunque, sono ancora lacunosi.

Un passo in avanti per una conoscenza migliore è stato fatto da un gruppo di lavoro italo-danese, composto da ricercatori delle università di Copenaghen e di Brescia (nello specifico da Mariachiara Pucci e Giulia Abate), che hanno appena pubblicato, su Food Research International, quanto osservato su diversi tipi di latte in commercio in Danimarca e in Scandinavia, rivelando aspetti non molto positivi per quelli vegetali (sì, la corretta denominazione è “bevande vegetali a base di…” ma qui veniamo incontro all’uso comune dei termini).

Il confronto nutrizionale

In Danimarca molti prodotti a base vegetale sono sottoposti al trattamento UHT, ad alta temperatura (per almeno un secondo a 135°C) che li sterilizza e consente di venderli fino a 90 giorni dal confezionamento. Lo stesso trattamento viene applicato al latte vaccino a lunga conservazione. Gli autori hanno analizzato due tipi di latte di vacca UHT, sei tipi di latte d’avena (a diverse concentrazioni di grassi), e poi un latte di riso, uno di soia, uno di mandorla e una miscela commerciale di latte vegetale di soia, riso, mandorla e avena, prodotti e venduti da tre aziende diverse e sottoposti a una lavorazione necessaria per ottenere bevande gradevoli, e all’UHT. Tuttavia, i trattamenti possono compromettere la qualità e la quantità dei nutrienti, e generare sostanze potenzialmente pericolose. E di norma prevedono l’aggiunta di grandi quantità di zucchero, sempre per migliorare gli aspetti organolettici.

In base alle analisi condotte, gli autori hanno dimostrato che i passaggi chimico-fisici lasciano tracce evidenti. Per esempio, i latti a base vegetale hanno quantità molto basse di proteine: otto tipi di latte vegetale sui dieci verificati ne contenevano tra 0,4 e 1,1 grammi per litro (g/l), contro i 3,4 g/l medi del latte di vacca. Tutti i prodotti vegetali, poi, avevano concentrazioni di aminoacidi essenziali inferiori rispetto a quelle medie del latte vaccino, e sette su dieci zuccheri superiori, talvolta derivanti dal vegetale di partenza, come nel caso del riso, ma sempre anche dalle aggiunte.

Una persona versa latte da una brocca in una tazza su un piatto di legno; sullo sfondo due bottiglie di latte; concept: latte crudo, latte fresco
In un mondo ideale, la soluzione ci sarebbe: realizzare da sé, a casa e a freddo, il proprio latte vegetale

I rischi del latte vegetale

Dal punto di vista nutrizionale, quindi, non c’è paragone, come hanno già mostrato altre indagini simili negli anni scorsi. Ma lo studio delle ricercatrici bresciane mette in evidenza un aspetto più preoccupante: la formazione di composti chimici potenzialmente pericolosi a causa del surriscaldamento dell’UHT, che avrebbe effetti diversi rispetto a quelli che si hanno nel latte di vacca.

Nei latti vegetali avrebbe infatti luogo la cosiddetta reazione di Maillard, una reazione che si determina alle alte temperature tra le proteine e gli zuccheri, e che dà luogo a composti quali l’acrilammide, potenzialmente cancerogena, e ritrovata in quattro dei prodotti testati. Oltre all’acrilammide, gli autori hanno poi identificato un’altra sostanza tipicamente originata dalla reazione di Maillard, l’idrossimetilfurfurale (HMF), insieme a composti anch’essi pericolosi, chiamati genericamente α-dicarbonili, tutti promotori di infiammazioni e associati a un aumento del rischio cardiovascolare e ad alterazioni del microbiota intestinale.

In nessun caso si trattava di concentrazioni superiori a quelle considerate sicure ma, come hanno sottolineato gli autori, bisogna sempre tenere presente il rischio di accumulo con le stesse sostanze provenienti da altri alimenti ultra processati.

In ogni caso, la reazione di Maillard altera sempre le proteine presenti. A fronte di un contenuto di partenza già basso, ciò che resta dopo l’UHT sarebbe quindi inferiore e diverso, e talvolta nocivo o pericoloso. E questo dimostra soprattutto quanto poco si sappia, per il momento, di prodotti che, invece, godono di una reputazione molto positiva.

Bevande vegetali a base di soia,, nocciola, coco, mandorla, avena, anacardi e noci
Dal punto di vista nutrizionale non c’è paragone tra bevande vegetali e latte vaccino

Cosa fare?

Secondo gli autori, una diversa regolazione dell’etichettatura potrebbe aiutare i consumatori a fare scelte più consapevoli. Per esempio, se fosse specificato meglio il quantitativo di aminoacidi essenziali (oggi non obbligatorio) si potrebbe avere un’idea più chiara dello scarso valore nutrizionale di queste bevande. I produttori dovrebbero poi finanziare studi che possano indicare alternative meno invasive rispetto al trattamento UHT, o che verifichino se esso sia indispensabile per sterilizzare le bevande vegetali, o se non siano sufficienti approcci più soft.

Il singolo consumatore, poi, dovrebbe sempre conservare questi latti in frigorifero, per rallentare o evitare eventuali altre reazioni che compromettano ulteriormente i nutrienti.

In un mondo ideale, la soluzione ci sarebbe: realizzare da sé, a casa e a freddo, il proprio latte vegetale. Quando non è possibile, il consiglio è comunque sempre lo stesso: cercare di acquistare alimenti e bevande che abbiano subito la quantità minima possibile di lavorazioni industriali.

Il latte crudo e il rischio aviaria

Gli autori ricordano come le alternative al latte vaccino abbiano comunque aspetti positivi, e si possano introdurre in un’alimentazione che dovrebbe diminuire l’apporto di proteine animali, specie se derivanti da animali allevati.

Questi latti potrebbero aumentare ulteriormente le vendite in Paesi come gli Stati Uniti, ma anche la Germania e altri paesi del Nord Europa, dove il latte vaccino crudo, non pastorizzato ma sottoposto solo a trattamenti molto blandi, sostenuto (negli USA) dal prossimo probabile ministro per la salute Robert Kennedy jr, inizia a destare serie preoccupazioni per il rischio di trasmissione dell’influenza aviaria. I ricercatori dell’università della California di Stanford hanno infatti appena pubblicato, su Environmental Science & Technology Letters i risultati dei loro test, che mostrano che il virus dell’aviaria resta attivo e infettivo per almeno cinque giorni dopo il confezionamento del latte crudo, anche se conservato a 4°C. Inoltre, il suo materiale genetico (RNA) resta presente nei campioni e misurabile per 57 giorni.

Quattordici milioni di americani consumano abitualmente latte crudo, secondo la Food and Drug Administration, e da esso, negli ultimi anni, sono arrivati ben 200 focolai infettivi, secondo i Centers for Diseases Control di Atlanta, soprattutto di salmonelle ed Escherichia coli. Ora i timori per l’aviaria potrebbero convincere molti ad abbandonarlo, e a rivolgersi a qualche tipo di latte vegetale, anche perché neppure la pastorizzazione, che elimina oltre il 90% dei virus influenzali, raggiunge il 100%.

Infine, se la situazione dell’aviaria dovesse peggiorare e si dovessero verificare contaminazioni estese attraverso i macchinari o, per esempio, i banconi dei supermercati o quelli delle cucine domestiche, il latte crudo potrebbe essere vietato. Con buona pace del nuovo ministro contro il quale si sono schierati oltre 75 premi Nobel, proprio per le sue pericolose posizioni antiscientifiche.

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Giulia
Giulia
13 Gennaio 2025 14:32

bisogna anche ricordare che buona parte di queste bevande vegetali contiene oli di semi e i cui omega-6 vanno ad aggiungersi ulteriormente a quelli contenuti in avena, riso, farro eccetera

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