Come se una pandemia e l’esplosione dei prezzi dell’energia non fossero abbastanza, nelle ultime settimane gli Stati Uniti si sono ritrovati ad affrontare una carenza di latte in polvere senza precedenti, con il 40% dei marchi esauriti in tutto il paese. In alcuni stati la situazione è ancora più grave: in Iowa, Sud e Nord Dakota, Missouri, Texas e Tennessee più del 50% dei brand di latte in polvere non è disponibile sugli scaffali di supermercati e farmacie. Si tratta di una crisi che sta costringendo molti genitori a percorrere centinaia di chilometri per trovare un negozio rifornito o pagare cifre esorbitanti online, mentre catene come Walgreens e CVS sono state obbligate a limitare gli acquisti dei clienti a poche confezioni alla volta. Senza contare che le formule per esigenze speciali sono ancora più difficili da trovare. Ma com’è potuto succedere?
A scatenare la crisi hanno contribuito diversi eventi, i cui effetti si sono sommati, dando vita a una tempesta perfetta. Prima la pandemia di Covid-19 ha fatto oscillare drammaticamente e imprevedibilmente gli acquisti di latte in polvere, rendendo difficoltoso per le aziende programmare la produzione. I problemi nella catena di approvvigionamento delle materie prime, la guerra in Ucraina e le sanzioni economiche, e le regolamentazioni americane del latte in polvere che impediscono quasi completamente le importazioni, sono tutti elementi che hanno contribuito a peggiorare la situazione. La proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, però, è stata la chiusura del più grande impianto produttivo di latte in polvere degli Stati Uniti per una sospetta contaminazione batterica.
Lo scorso 17 febbraio, Abbott Nutrition aveva richiamato in tutto il mondo – Italia compresa – grandi quantità di latte in polvere venduti con i marchi EleCare e Alimentum Similac, in seguito alla segnalazione di quattro casi di infezione alimentare da Cronobacter sakazakii in neonati, due dei quali deceduti. Nello stesso momento, la multinazionale ha temporaneamente chiuso il suo impianto di Sturgis, in Michigan, per consentire alla Food and Drug Administration (Fda) di investigare.
Le indagini tuttavia, non hanno rilevato la presenza del batterio nel latte in polvere raccolto nell’impianto, ma solo in campioni ambientali prelevati in aree non produttive. In un comunicato, Abbott afferma che “dopo un’approfondita revisione di tutti i dati disponibili, non ci sono prove a collegare il nostro latte in polvere a queste malattie”. Secondo quanto rivelato dall’azienda, infatti, i ceppi batterici prelevati dai bambini malati non coincidono con quelli rilevati nello stabilimento. Inoltre, le indagini condotte da Fda e Centri per il controllo delle malattie (Cdc) hanno trovato tracce di C. sakazakii solo in una latta aperta nell’abitazione di una delle famiglie coinvolte, anche in questo caso di un ceppo differente da quelli presenti nell’impianto.
È notizia del 16 maggio che, nonostante le indagini non si siano ancora concluse, per far fronte alla carenza di latte in polvere, la Fda ha concesso ad Abbott di riaprire il suo stabilimento, che quindi si prepara a far ripartire la produzione non appena completate le azioni correttive richieste dalle autorità. L’azienda si aspetta che, se l’accordo con la Fda sarà approvato dalle autorità giudiziarie, lo stabilimento potrà riaprire in circa due settimane. Per vedere la fine della crisi però bisognerà aspettare ancora un po’ di tempo: ci vorranno sei-otto settimane affinché il latte in polvere arrivi sugli scaffali.
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Giornalista professionista, redattrice de Il Fatto Alimentare. Biologa, con un master in Alimentazione e dietetica applicata. Scrive principalmente di alimentazione, etichette, sostenibilità e sicurezza alimentare. Gestisce i richiami alimentari e il ‘servizio alert’.