Pizza con prosciutto, olive, mozzarella o burrata con pomodorini e basilico, spaghetti con pomodoro fresco e basilico, salumi misti; concept: cucina italiana

Professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma dove insegna anche Storia dell’integrazione europea, Alberto Grandi nel 2018 ha pubblicato il bestseller Denominazione di Origine Inventata con Mondadori. Da questo libro è nato il famoso podcast DOI, scritto e narrato insieme a Daniele Soffiati. Insieme hanno dato vita al  libro La cucina italiana non esiste, un testo che incuriosisce e stupisce generando anche sentimenti contrastanti in coloro che, al valore delle tradizioni, sono fortemente legati.

La cucina italiana è un’invenzione?

Perché, a dire la verità, la cucina italiana è concettualmente un’invenzione recente e di fatto una bugia del marketing”. Partendo da questo assunto, attraverso un excursus storico, il libro ci guida alla scoperta delle abitudini alimentari degli italiani, raccontandoci la genesi di quegli alimenti e di quelle ricette che oggi sono più rappresentative della cucina italiana e di cui spesso ne difendiamo il diritto di appartenenza alla tradizione.

Ma la tradizione per esistere deve affondare le proprie radici in un passato ed è proprio questo passato che ci raccontano i due autori, perché attraverso la storia forse possiamo comprendere quale sia l’effettivo legame con la narrazione della tradizione.

Il mito della cucina italiana

Nel libro non si mette in discussione la qualità dei piatti e dei prodotti che oggi popolano da nord a sud, da est a ovest il nostro territorio, ma gli autori cercano di ridimensionare la narrazione ‘mitologica’ di determinati prodotti e ricette che fanno parte della cucina italiana. La cucina in generale è frutto di incroci e contaminazioni e quella italiana in particolare, con la sua storia di migrazioni e di una grande presenza di dominazioni da differenti parti del mondo, ne è stata fortemente caratterizzata. Il cambiamento è una costante, nessun prodotto o pietanza è così da sempre e, soprattutto, ogni piatto ha una storia molto più recente di quello che si vuol far credere.
La cucina italiana non esiste - libro Alberto Grandi Daniele Soffiati Mondadori 2024

 

Identità e cultura nazionale, secondo gli autori, sono i due aspetti su cui bisogna concentrarsi. L’identità della tavola, infatti, muta continuamente insieme ai cambiamenti sociali, economici e culturali del Paese. E se di cultura nazionale si vuole parlare, in realtà questa nasce nelle Little Italy delle comunità di emigranti che si uniscono nel nuovo Paese di arrivo dove, contestualmente, prendono vita nuove abitudini alimentari.

Il ruolo degli emigrati negli Stati Uniti

L’emigrazione negli Stati Uniti, in particolare quella che ha visto tra i quindici e i venti milioni di italiani spinti dalla fame emigrare tra il 1870 e il 1914, è stata quella che più di tutte “ha condizionato lo sviluppo dell’alimentazione in Italia, per gran parte della ristorazione italiana nel mondo e quindi per l’immagine internazionale della cucina italiana i piatti proposti arrivano dagli usa più che dall’Italia. Gli spaghetti with meatballs (o spagetti secondo la grafia in uso negli Stati uniti) o gli spaghetti alla bolognese sono proposte immancabili nei ristoranti italiani di tutto il mondo, sono americani e non italiani”.

Ma la cucina italiana per gli italiani e la cucina italiana per il mondo sono due visioni completamente diverse, ci fanno notare gli autori, dove per il mondo la nostra cucina consiste “di piatti ben consolidati di poche ricette universalmente associate al bel paese (almeno nel nome) dalle quali dipendono il successo internazionale e la reputazione gastronomica dell’Italia” ma “All’interno dei confini nazionali, prevale ampiamente una tendenza localistica estremamente accentuata; quando dall’Italia si prova a definire la cucina italiana si ricorre alla metafora del mosaico e si esaltano le differenze regionali”. Due visioni quindi completamente differenti di una stessa realtà.

Fame e povertà

E se di un modello alimentare italiano nel quale tutti potevano riconoscersi esisteva era quello della fame e della povertà.  Binomio che ha caratterizzato in particolare il periodo che va dall’età napoleonica in poi, quando gran parte della popolazione della penisola viveva in condizioni estremamente precarie, situazione collegata anche al dominio straniero e alla mancanza di un’unità economica e politica.

Zuppa con cereali e verdure in una ciotola di terracotta
All’indomani dell’Unità d’Italia, il 70% della popolazione non mangiava mai carne, pesce, latte e formaggio

Insomma, sino alla Rivoluzione Industriale la ricchezza delle tavole, di cui si trova testimonianza nei ricettari dei cuochi, era un privilegio riservato “a ristrettissime élite”. Basta dare uno sguardo alle fonti per sapere che “all’indomani dell’Unità si calcolava che la sterminata popolazione contadina (circa il 70% del totale) non consumasse mai carne, lo stesso valeva per il pesce, il latte, il formaggio e in generale i grassi, con la parziale eccezione del grasso di suino, di minore qualità” e che “cereali, legumi, castagne e vino erano il nutrimento degli italiani negli ultimi decenni del XIX secolo

I retroscena della cucina italiana

In viaggio nell’Italia delle pestilenze, delle carestie e delle migrazioni, Grandi e Soffiati ci raccontano i retroscena di piatti simbolo della cucina italiana. La pizza, per esempio, ai tempi non si considerava certo un’eccellenza come viene raccontata oggi, anzi “poco rappresentativo della cucina italiana” e le cui testimonianze ottocentesche ci dicono che “la pizza napoletana è il simbolo della miseria e del sudiciume che caratterizzano i quartieri popolari di Napoli (…) un cibo da evitare se si vuole stare in buona salute”.

O i maccheroni al pomodoro, la cui salsa in realtà era sconosciuta da noi ma già industrializzata negli USA. Solo una volta diventata il perno dell’alimentazione degli italiani in America,  la passata è arrivata nella nostra cucina. “Insomma gli italiani in Italia non conoscevano la salsa di pomodoro e chi la mangiava poteva farlo solo d’estate, quasi esclusivamente al sud, nelle settimane della raccolta. Gli italiani hanno cominciato a consumare davvero la salsa di pomodoro per tutto l’anno in America, a partire dalla fine dell’ottocento, e solo nei decenni successivi le abitudini acquisite oltreoceano si sono imposte nello stivale, da sud a nord. La cucina italiana è americana”.

“Da questa citazione, – continuano gli autori – si può dire che la grande migrazione verso il continente americano ha avuto un ruolo importante nella costruzione di un gusto italiano a tavola”

Bottiglie di passata di pomodoro fatta in casa
Gli italiani hanno iniziato a consumare salsa di pomodoro industriale solo negli Stati Uniti

Da Carlo Magno a Michelangelo

E ancora dall’Imperatore Carlo Magno ghiotto di formaggi, a Michelangelo che apprezzava la Casciotta di Urbino, a Papa Pio II che a “Pienza faceva marchiare le forme provenienti dai migliori pastori della zona per portarle a Roma”, si arriva al Parmigiano la cui narrazione, pur essendo una delle poche che vanta documenti e testimonianze che coprono circa ottocento anni, riserva alcune sorprese. Nel 1855, per esempio nella famosa guida Baedeker dedicata all’Italia, parlando di Parma si legge che: “l’apprezzato formaggio Parmigiano, qui chiamato grana, porta il suo nome ingiustamente, poiché viene prodotto in Lombardia”. 

Non possono mancare l’olio di oliva extravergine e il caffè la cui usanza italiana di berlo al mattino a colazione sembra un’abitudine nata sul finire della prima guerra mondiale, del resto come scriveva Giuseppe Baretti a fine Settecento in Relazione degli usi e costumi d’Italiala generalità de’ nostri contadini e del basso popolo fa colezione con della polenta.”

Il ruolo dell’industria

E allora quali sono le verità nascoste dietro la storia dei prodotti già citati ma anche dello Spritz, dello speck dell’Alto Adige, della cotoletta alla milanese o del lardo di Colonnata per citare solo alcuni dei prodotti di cui ci raccontano gli autori? Dove hanno radici le tradizioni che oggi caratterizzano la nostra cucina e il nostro territorio?

Non è solo di storia e leggende che il libro parla ma della realtà dell’industria agroalimentare, degli allevamenti intensivi, dei processi produttivi industriali, della PAC, ma anche del ruolo che il turismo sembra aver avuto in quello che gli autori definiscono “il marketing della tradizione” e non mancano riflessioni sul nesso tra innovazione e tradizione.

Calice di spritz e ciotola di stuzzichini su vassoio in una terrazza sul lago di Como; concept: cocktail, aperitivo
Nel libro si parla anche dell’origine di prodotti come lo Spritz o lo speck dell’Alto Adige

Per capire le origini di un prodotto bisogna anche sapere cosa sono e come nascono i marchi DOP, IGP, De.Co, ecc., ponendo attenzione a un passaggio: “Determinare l’area di produzione di una denominazione è sempre un atto arbitrario, legato a logiche economiche più che a vere considerazioni di carattere storico e culturale”. Come, ad esempio, la DOP del gambero rosso di Mazara del Vallo, che in realtà si pesca soprattutto nei mari libici.

La cucina italiana nasce nel secondo dopoguerra

Dall’apertura del primo supermercato, all’arrivo dei frigoriferi, della TV con Carosello, è da questo momento storico fatto di questa nuova realtà tecnologica che entra nelle case degli italiani, sostengono gli autori, che si può iniziare a parlare di una cucina italiana e della sua nascita. Quindi la cucina italiana per come la conosciamo noi oggi non ha più di 50 o 60 anni perché solo dal boom economico e grazie alla disponibilità dei prodotti industriale e all’arrivo degli elettrodomestici, le mamme e le nonne italiane hanno avuto la possibilità di creare la cucina domestica che nulla ha a che vedere con quella precedente, fatta di polenta, vegetali e povertà dell’enorme massa contadina che popolava l’Italia da sud a nord sino agli anni ’50 del XX secolo.

Povertà e fame erano dunque i protagonisti di un Italia tutt’altro che unita, e quello che conosciamo oggi in materia gastronomica e dei ‘leggendari’ prodotti tradizionali risale al periodo post boom economico. Come il tiramisù, oggi considerato un dolce tipico della tradizione “è figlio della rivoluzione dei consumi, della diffusione dei frigoriferi e dei supermercati in Italia con i savoiardi e il mascarpone”.

Cucina italiana patrimonio dell’umanità?

Ci chiediamo se questo libro abbia trovato la sua ispirazione nel momento in cui l’Italia, il 23 marzo 2023, ha ufficialmente presentato all’Unesco la candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale dell’umanità. Promotori dell’iniziativa : l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi, La Cucina Italiana. Grandi e Soffiati, citando Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino che “un pò alla volta imparò ad essere”, scrivono: “fino a qualche tempo fa, gli stessi promotori di tale candidatura esaltavano i localismi estremi e concettualmente inconciliabili arrivando ad affermare che l’idea di cucina italiana non poteva esistere”.

Gli autori ci danno anche degli spunti di riflessione: “se oggi assaggiassimo i prosciutti frutto delle secolari tradizioni contadine, ma senza le migliorie introdotte dai moderni processi produttivi, che giudizio ne daremmo?” E la risposta che essi stessi danno è che con ogni probabilità ne rimarremmo disgustati. Discorso che si potrebbe fare per qualsiasi prodotto (vedasi il caso della pizza precedentemente citato) da cui il paradosso: “la nostra moderna industria alimentare, per rendere più attraenti i propri prosciutti o formaggi, occulta le migliorie produttive introdotte spendendo fior di quattrini, richiamando invece alla memoria lavorazioni del passato rudimentali, approssimative, prive di igiene. Insomma, siamo di fronte all’unico paradossale caso di industria miliardaria che per vendere ha deciso di spacciarsi per bottega, meglio se medievale. Un po’ come se i colossi della siderurgia fingessero dì essere fabbri e maniscalchi…”.

Granchio blu; concept: specie invasive
Anche per il granchio blu nascerà una nuova narrazione?

A ogni prodotto la sua narrazione

E se abbiamo ancora dei dubbi sulla costruzione della narrazione gli autori ci portano l’esempio recente del granchio blu ed essi stessi ne imbandiscono la narrazione con un ipotetico dossier storico “nuove eccellenze e nuovissime antichissime tradizioni arriveranno sugli scaffali dei negozi (…). Prima additato come pericolosa minaccia alle nostre tradizionali produzioni di mitili, è diventato esso stesso prodotto gastronomico di qualità e chissà che presto non venga avviata la procedura per ottenere il marchio DOP, o almeno IGP, con tanto di dossier storico a dimostrare come già il Doge di Venezia Enrico Dandolo all’inizio del XIII secolo ne fosse particolarmente ghiotto e proprio per questo si intestardì a voler conquistare il piccolo porto friulano di Muggia, dove i granchi blu erano particolarmente gustosi”.

L’invenzione della tradizione

Non si può non evidenziare qui la citazione che gli autori fanno del libro di Hobsbawn e Ranger del 1983 dal titolo L’invenzione della tradizione, la più famosa delle quali è il kilt scozzese. Ma ancor più interessante è il saggio con cui si chiude il libro dal titolo Tradizioni e genesi dell’identità di massa in Europa in cui l’autore “spiega come ogni società abbia accumulato una riserva di materiali in apparenza antichi per rinsaldare vincoli nazionali, per connotare più marcatamente la fisionomia di partiti o di ceti, o per attenuare quel senso di insicurezza  che si poteva avvertire guardando a un futuro di radicali innovazioni

Insomma dall’ analisi che gli autori fanno tra passato, presente e futuro sembra che la narrazione creata intorno al cibo negli ultimi decenni sia un enorme castello di carte. Stando alle nuove tendenze, che vedono l’arrivo di nuovi alimenti come la carne coltivata in futuro e gli insetti che sono già sul mercato, la cucina infatti continuerà a cambiare e le innovazioni si faranno strada condizionate da cambiamenti sociali, economici e culturali, come è sempre stato e come continuerà ad essere.

Il libro è interessante e dà ottimi spunti di riflessione e riferimenti bibliografici per approfondire le differenti tematiche affrontate. Forse in alcuni passaggi si potrebbero ravvisare delle forzature o forse no, ma sicuramente è un libro che esce dagli schemi, controcorrente rispetto a una narrazione istituzionale che ha ormai fatto breccia nell’immaginario dei consumatori.

La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti e i piatti cosiddetti tipici” di Alberto Grandi e Daniele Soffiati. ISBN: 9788804781417. Pagine 276. Mondadori

© Riproduzione riservata Foto: Depositphotos, Mondadori, Fotolia, AdobeStock

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alberto
alberto
25 Agosto 2024 10:03

sono d accordo con gli autori. la cucina italiana è invenzione del marketing e di presunti cuochi.

Roberto
Roberto
Reply to  alberto
12 Settembre 2024 09:59

Esatto, MARKETING

Che è quello di fare un libro con un titolo forte e divisivo così che faccia scalpore.

Un libro che si chiamasse “La buona cucina italiana” attirerebbe molto meno l’attenzione.

Del resto, se l’autore vuole mangiare “italiano” e andare all’estero per ordinarsi degli italianissimi “spaghetti alla bolognese”, non sarò certo io a fermarlo e a impedirgli di gustarsi questa specialità.

gianni
gianni
27 Agosto 2024 13:32

Mah, il marketing c’entra senz’altro, bugie sotto forma di tradizioni antiche poco supportate da fatti provati.
Il fatto che si cambino alcuni ingredienti è normalissimo e non stravolge alcuna tradizione, suvvia secondo questo criterio mi piacerebbe sapere quale piatto in giro per il mondo possa resistere.
E poi quanti anni deve compiere una ricetta per diventare tradizionale?
Per ultimo comunque il discorso sulla pizza fa veramente pena, per non dire altro.

Giovanni Natale
Giovanni Natale
12 Settembre 2024 08:36

Cosa vuole dimostrare ?Potrei scrivere un articolo con prove contraie e credibili.Mi dica gli spaghetti alla bolognese o con meat ball ?Ma questi piatti, ideati per compiacere una clientela estera ignorante, sono fantasie che nulla hanno a che fare con la cucina italiana.Mi parla di sprizz
(?) e di speck che è una delle tante varianti di carne stagionata che si ritrovano sull’arco alpino da ben prima della seconda guerra mondiale. Il baccalà è presente su tutte le tavole italiane da secoli, perchè permetteva il consumo di proteine non costose e facilmente conservativi.Noi avevamo fantasia ed ecco le varie ricette con baccalà.Per confronto, andate a mangiare baccalà in Norvegia così capirete la differenza. Questo autore è troppo ostinato per non generare sospetti.Il food porn con il cibo italiano è un’ altra cosa.Potrei andare avanti con mille esempi e scrivere anche io un libro con date e citazioni di ricette che niente hanno a che fare con una cesura determinata dalla seconda guerra mondiale.Proveniente da una famiglia contadina almeno dal 1680 (contadini affittuari, non agrari)so, per tradizione familiare, cosa si mangiava a casa mia oltre cento anni fa.

Alberto Mantovani
12 Settembre 2024 10:00

Interessante, stimolante e in gran parte condivisibile. A mio parere. fra la cucina povera di contadini e montanari e la cucina dei palazzi, è vitale la cucina borghese che nasce col Risorgimento ed è esemplificata dall’Artusi

Roberto Giordano
Roberto Giordano
12 Settembre 2024 10:24

Libretto molto esaustivo su identità e radici: “il mito delle origini: breve storia degli spaghetti al pomodoro” di Massimo Montanari. E’ già tutto lì

Patrick
Patrick
12 Settembre 2024 18:59

Beh, interessante, ma mi pare che già ci sia una certa informazione sul fatto che molti piatti/specialità abbiano altre origini (arabe, spagnole, francesi o addirittura polacche, vedi il Babbà…), e che gli americani o americanizzati abbiano avuto una certa influenza (la carbonara a quanto sembra), resta il fatto, come ha scritto qualcun altro qui, che c’è una inventiva lodevole nel trasformare o migliorare, per cui l’Italia dovrebbe avere sicuramente un vanto.
Più che la cucina, sarebbe da proteggere come patrimonio, l’inventiva italiana (almeno quella buona, purtroppo c’è l’altra faccia della stessa medaglia in negativo…).
Non sapevo della pizza come alimento del popolo sudicio, ma presumo che la storia della Regina Margherita non sia marketing ante litteram.
D’altronde, molti alimenti “poveri” hanno subito una ottima rivalutazione, direi: per fortuna!

stefano
stefano
13 Settembre 2024 13:08

Sono più convinto che la tradizione sia il frutto del buoni risultati ottenuti da una innovazione. Insomma sicuramente conta la storia ma conta soprattutto il fatto che un oggetto, un cibo, un vino diventano tradizione se sono il risultato di una innovazione ben riuscita.