
Era il 25 marzo del 2024 quando per la prima volta lo US Department of Agriculture segnalava al mondo che in Texas e Kansas c’erano alcuni bovini da latte infettati dal virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) H5N1. Da allora, i focolai sono stati decine, in quasi tutti gli stati americani, e gli umani infettati (per il momento senza gravi conseguenze) sono stati 70 con un decesso. Poche settimane fa, nuovi spillover, cioè salti di specie, in questo caso da uccelli a bovini, sono stati segnalati in Nevada e Arizona, con nuove varianti del virus. Nel frattempo, però, nonostante il lavoro di decine di laboratori statunitensi e non solo, ben poco si è capito, mentre l’aviaria continua a diffondersi tra il pollame, tra le vacche e in specie sempre diverse.
Un anno dopo
A fare il punto sulla situazione è Science, che affronta le questioni aperte, ovvero come, quando e dove è avvenuto lo spillover, e perché. Per quanto riguarda le modalità del passaggio dai volatili ai bovini, le risposte sono del tutto insoddisfacenti, ed è probabile che restino tali, perché quando è stato scoperto il primo caso, con ogni probabilità il virus circolava già da mesi tra i bovini. Capire a posteriori chi è stata la mucca zero, e perché si è infettata, è quasi impossibile, anche a causa della contemporanea insorgenza dell’infezione in allevamenti e fattorie distanti centinaia di chilometri gli uni dagli altre, in stati diversi.
Ma l’impossibilità di stabilire i fatti ha conseguenze gravi, perché se non si capisce quali sono i punti critici della filiera, non si possono programmare strategie preventive mirate. Allo stesso modo, se lo spillover è stato il frutto della casualità, anche se oggi la situazione fosse sotto controllo, non ci sono garanzie che possa restare tale: un altro evento sfortunato può accadere in qualunque momento.
Per quanto riguarda i ceppi, le prime infezioni sono state provocate da 2.3.4.4b, un virus che sta falcidiano gli uccelli dal 2020, e che si localizza nelle mammelle delle vacche, ma non si sa molto di più. Peraltro, gli spillover di quest’anno sono stati veicolati da un altro ceppo, chiamato D1.1.

Europa versus USA
C’è poi un altro mistero che, per ora, ha poche spiegazioni: perché, se questi virus sono così infettivi, sono stati contagiati solo i bovini statunitensi, anche se in Europa l’influenza aviaria sta imperversando da anni? E lo stesso si potrebbe chiedere per tutti gli altri paesi nei quali vi sono grandi allevamenti di bovini. Secondo alcuni esperti tra i quali Jürgen Richt, della Kansas State University, il motivo va ricercato nelle pratiche intensive americane, che non sono paragonabili a quelle europee. Prima della crisi, infatti, non meno di 50.000 bovini da latte ogni settimana percorrevano gli stati americani da un allevamento all’altro, amplificando a dismisura i rischi. Altrove, non esistono allevamenti ampi come quelli statunitensi, che si estendono anche su più stati, e non si spostano mai così tanti capi per così tanti chilometri.
L’influenza aviaria in Europa
Una prova indiretta del fatto che all’origine del contagio ci potrebbe essere qualche pratica diversa, tipicamente americana, arriva dal Regno Unito, dove il 24 marzo è stato annunciato il primo ritrovamento di aviaria H5N1 nel latte di una pecora di un allevamento dello Yorkshire dove era stato trovato il virus tra il pollame. Il caso sembra essersi chiuso, fatto che confermerebbe che qualcosa, nelle filiere americane, facilita la diffusione, a differenza di quanto avviene in Europa. In altre parole, piò essere che gli spillover siano più frequenti di quanto si pensi, ma di solito si esauriscono da soli. Tranne che negli USA.
In ogni caso, per l’Europa si tratterebbe di eventi sporadici: migliaia di test effettuati su bovini in Norvegia, Italia, Olanda, Regno Unito e Svezia non hanno portato a nessuna identificazione neppure di anticorpi.
Un altro motivo può essere la gigantesca diffusione dell’influenza aviaria tra i polli americani, che dal 2021 ha già portato alla morte di 170 milioni di capi, tra morte per aviaria e soppressioni. Inoltre, negli USA le vacche pascolano spesso all’aperto, a differenza di quanto accade in Europa, e anche questo aumenta i rischi di contagi da volatili.
Modalità di contagio sconosciute
Infine, ancora oggi ci si chiede in che modo il virus sia entrato nelle mammelle delle bovine, e la risposta più probabile, al momento, è: attraverso l’attrezzatura, magari di un veterinario. C’è un precedente: in Norvegia, nel 2016, l’aviaria H1N1 è arrivata ai tacchini attraverso gli strumenti per l’inseminazione artificiale.
Ma forse il vero problema è che, finora, non c’è stata una vera mobilitazione da parte delle autorità americane. Non sono state introdotte norme abbastanza severe per il latte, non sono state lanciate campagne estese di test né strategie di contenimento se non in minima parte, e non sono stati finanziati gli studi necessari. E la situazione potrebbe precipitare, viste le idee assurde e pericolosissime del Ministro della salute Robert Kennedy e di quella dell’agricoltura Brooke Rollins, sotto cui ricadono gli allevamenti.
Se la crisi dovesse sfuggire di mano, quella delle uova sarebbe ricordata come una leggera perturbazione del mercato, in confronto a ciò che si potrebbe verificare con le bovine da latte. E, probabilmente, con altri animali, e con gli esseri umani.
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Giornalista scientifica